Il cyberfemminismo harawayano è riuscito a costruire le basi per un femminismo che andasse oltre il binarismo di genere, pronto per la lotta di classe ed ironico al punto giusto. Negli anni la teoria cyber si è evoluta fino ad arrivare ad Helen Hester e al suo manifesto Xenofemminista
Il cyberfemminismo harawayano è una branca del femminismo molto vasta sia a livello temporale che di correnti e sottocorrenti, ha avuto e continua ad avere molti esponenti e nel tempo si è dilatata sempre di più fino ad arrivare, ad esempio, alle recenti teorie del Glitch Feminist di Legacy Russell o al più conosciuto e strutturato Xenofemminismo di Helen Hester. Per questo motivo, oltre che ad una parte generale di contesto, questo articolo si concentrerà in particolare su Donna J.Haraway, considerata una delle esponenti principali del cyberfemminismo, e sul suo saggio Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, che contribuì a diffondere in tutto il mondo la visione sociale, artistica e politica cyberfemminista, in particolare attraverso l’innovativo concetto di cyborg. Questo, quindi, si intende con “cyberfemminismo harawayano”: un femminismo a prova di cyborg.
Donna J.Haraway
Donna J. Haraway è una filosofa ed una biologa statunitense considerata una delle principali pioniere del cyberfemminismo, una branca del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e tecnologia sulla vita degli esseri umani moderni. Haraway è una delle critiche più feroci del femminismo tradizionale, accusato di essere troppo in linea con il pensiero dominante occidentale, di tipo binario asimmetrico, funzionale alle pratiche del dominio: non solo sulle donne, ma anche la natura, le persone nere, i lavoratori e gli animali.
Lo sguardo con cui Haraway analizza le trasformazioni in campo tecnologico figlie del suo tempo – inizi anni ottanta e fine anni novanta – deriva in buona parte dalla sua storia in quanto biologa: non solo Haraway ci invita a ripensare alle basi della biologia, anche grazie alla nascita di nuove tecnologie, ma ci dice senza troppi giri di parole che l’organismo biologico, sia come oggetto culturale che come oggetto biologico, ha cessato di esistere ed è stato rimpiazzato da una serie di sistemi di comunicazione che hanno abolito il dualismo su cui, fino a quel momento, anche buona parte delle teorie femministe tradizionali facevano affidamento. È in questo contesto che nasce il cyborg, di cui avremo modo di parlare più avanti.
Cyberfemminismo harawayano
La visione del cyberfemminismo harawayano è interessante sotto diversi punti di vista, primo tra tutti il concetto stesso di cyborg, concepito come umano e macchina, privo di sesso e quindi capace di discostarsi da qualunque classificazione di genere: negli anni ‘90, e ancora di più oggi, siamo tutti cyborg, in quanto la tecnologia ha cambiato e cambia continuamente il nostro corpo. Haraway infatti scrive che «alla fine del Ventunesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo».
Come si fa a pensare al corpo esclusivamente in termini biologici, si chiede implicitamente Haraway nella prima parte del saggio, quando la tecnologia ha invaso ogni lembo del nostro corpo ed ogni secondo del nostro quotidiano? Come si fa a considerare ancora valida una classificazione binaria derivante da una biologia priva delle moderne tecnologie di oggi e di domani?
Il cyborg risponde a tutte queste domande, in quanto sfugge da ogni dualismo (natura-cultura, maschile-femminile) e rappresenta la possibilità di nuove figurazioni politiche.
Quando si parla di tecnologie in chiave cyberfemminista, non va dimenticato che per Haraway la scienza, e ancor di più la biologia, non è neutra: il metodo scientifico è figlio della cultura da cui proviene lo scienziato che lo applica. Il pensiero di Haraway è fondato dunque sullo studio delle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita dell’essere umano moderno e ne sottolinea sia i grandi pregi che i forti difetti e spesso lo fa aiutandosi con la metafora del cyborg.
Le tre funzione del cyborg harawayano
Nell’introduzione del manifesto, Rosi Braidotti ci articola le tre funzioni principali del cyborg che sono:
- Offrire una sorta di cartografia della situazione socio-politica attuale;
- Proporre una ridefinizione della soggettività femminista, ovviamente connessa allo svilupparsi di una coscienza critica nei confronti della tecnologia;
- Di introdurre il concetto di “saperi situati”;
Per quanto riguarda la funzione cartografica, possiamo dire che il cyborg ci offre una vera e propria cartografia dei cambiamenti in corso, ovviamente in particolare quelli tecnologici. Gli anni novanta sono stati anni di immensi cambiamenti grazie alle nuove tecnologie: la micro-elettronica, videogiochi sempre più sofisticati, televisori via cavo ecc hanno costruito un mondo sempre più connesso e, se da una parte Haraway ne sottolinea il grande potenziale liberatorio, dall’altra non risparmia critiche su come questo mutamento così violento abbia portato gravi ingiustizie. In più, se da una parte ha un valore liberatorio, dall’altra ha inaugurato un nuovo assetto politico fondato sul potere tele-visuale, come lo definisce Haraway, dove regna la telecamera: un mondo dove siamo sempre più sorvegliati, dove le tecnologie servono ad inasprire le guerre e a rallentare la libertà. Haraway a questo proposito ci invita a fare due cose:
- Una rilettura del potere ottico delle tecnologie attuali;
- Una nuova alleanza: una nuova configurazione politica tra le femministe militanti e quelle che lavorano sull’epistemologia contemporanea e le nuove tecnologie.
Uno dei modi in cui il cyberfemminismo harawayano ci propone di ripensare alla scienza, e quindi anche al potere ottico, è lo sradicamento dei dualismi, perno fondamentale del pensiero scientifico occidentale.
L’aspetto cartografico ci porta direttamente alla proposta di Haraway di ripensare la soggettività: bisogna partire dall’assunto che il corpo non è un dato biologico ma un’insieme di codici socio-culturali. In più, la tecnologia ci ha dimostrato di poter cambiare continuamente il nostro corpo, facendo decadere il mito occidentale che lo vede come immutabile: il cyborg, corpo e macchina insieme perfettamente amalgamati, non si può rinchiudere o etichettare perché in continua evoluzione. Secondo Haraway, il primo passo verso la ridefinizione della soggettività deve essere una specie di cartografia personalizzata che rivela e simultaneamente slega i rapporti di potere concentrati sul soggetto come entità corporea.
Il cyborg come metafora
Il cyborg inaugura un nuovo modo di pensare l’identità sessuata, superando i dualismi cari anche al femminismo classico, valorizzando la diversità: un esempio che in tal proposito Haraway ci propone è il concetto di “donna”. Per la filosofa infatti non si può più ragionare partendo da un soggetto unico e unificato, come può essere “donna”, perché questo termine è vittima di diversificazioni culturali e ridefinizioni sociali come l’età, l’identità sessuale e la classe sociale. Tutti questi aspetti contribuiscono a costruire un complesso soggetto ricco di sfaccettature e di diversità: le stesse diversità che per Haraway sono preziose perché arricchiscono la visione politica: in questo modo, la nuova soggettività politica si basa sul rispetto per la diversità tra donne (come per altri soggetti) e si coniuga con la volontà di creare relazioni politiche.
Il cyberfemminismo harawayano, attraverso il cyborg, diventa così il modello per costruire soggettività che si discostano dai dualismi dominanti. Il cyborg apre anche la strada al soggetto queer, come vedremo più avanti.
Con il concetto di “saperi situati”, Haraway propone una ridefinizione dell’oggettività scientifica capace di far coincidere “il rispetto delle complessità con il progetto politico di un controllo sociale della ricerca scientifica” creando una visione etica del sapere tecnologico.
Il cyborg, quindi, è una metafora ed anche un costrutto femminista capace di decostruire le categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali (Haraway cita spesso in questi casi il femminismo classico, bianco ed etero), hanno tentato di rappresentare le mille sfaccettature degli oppressi, permettendo in questo modo al soggetto femminista, non più solo bianco, eterosessuale, cisgender e ricco, di articolarsi in mille altre realtà.
Haraway è ben consapevole che il cyborg oltre che metafora e costrutto femminista è anche un figlio del militarismo (e quindi figlio del patriarcato) ma anticipa le eventuali critiche con ironia, la stessa che contraddistingue il manifesto, affermando che «certo, il problema sta nel fatto che i cyborg sono figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale, per non parlare del socialismo di Stato. Ma i figli illegittimi sono spesso estremamente infedeli alle loro origini: i padri, in fondo, non sono essenziali.»
L’ironia con cui Haraway ci propone questo nuovo mito politico al servizio del cyberfemminismo è frutto della sua visione del femminismo socialista, che critica perché privo di umorismo e di gioco, tutte caratteristiche che, a detta della filosofa, rafforzano di significato anche il più semplice messaggio politico. Quest’ironia non è da sottovalutare se si vuole comprendere in pieno il potere politico-culturale del cyborg nella teoria del cyberfemminismo harawayano: l’ironia non solo è il motore di tutta la metafora cyborg ma ne costituisce anche quasi tutto il potere culturale, tramandato fino a noi nelle sembianze dell’alieno o del queer.
Gli anni ‘90: terreno fecondo per la politica e l’azione del cyberfemminismo harawayano, e non solo
Haraway nel suo manifesto ci preannuncia quindi due cose essenziali: l’informatica del dominio e un nuovo soggetto ibrido, il cyborg, capace di abbattere tutti i dualismi imposti dalla cultura patriarcale. Il manifesto esce in tutto il mondo entro la prima metà degli anni ‘90: era l’epoca d’oro del cyberpunk, la nascita di quella che verrà chiamata più in seguito “la cultura hacker”, con il terreno culturale pronto ad una nuova visione femminista che andasse oltre la differenza sessuale: così, gli anni ‘90 videro il proliferare di collettivi, artiste e filosofe dichiaratamente cyberfemministe, spesso molto diverse fra loro, sparse in tutto il mondo. Giusto per fare degli esempi citiamo l’artista francese Orlan che si è dedicata principalmente alla bodyart, diventando una delle esponenti più importanti dell’arte post-umana. Orlan rivendica la possibilità di riprogettarsi e con la sua arte plasma il proprio corpo, quasi chirurgicamente, abbattendo ogni dogma di bellezza. Citiamo anche la scrittrice di romanzi statunitense cyberpunk Pat Cadigan che proprio negli anni novanta vinse per ben due volte il premio Artur C. Clarke. Come non citare le australiane VNS Matrix, un collettivo fondato in Australia nel 1991 da artiste e filosofe cyberfemministe (come Francesca da Rimini). Le loro opere, diffuse sia tramite cartelloni e poster che tramite il nascente internet, hanno messo in discussione in modo provocatorio i discorsi di dominio e di controllo nel cyberspazio in espansione. Appena nate pubblicarono il loro Manifesto Cyberfemminista per il XXI secolo, “per inserire le donne, la fluidità corporea e la coscienza politica negli spazi elettronici” affermando una cosa molto interessante che verrà ripresa da Legacy Russell, più di vent’anni dopo, per strutturare il suo femminismo Glitch, ovvero che “siamo (le cyberfemministe) il virus del disordine del nuovo mondo”. Secondo vari critici d’arte, il VNS Matrix è stato il primo collettivo al mondo ad usare il termine cyberfemminismo per descrivere la loro pratica artistica e la loro visione politica.
Il boom vero e proprio si vide però nel 1997, anno in cui in Germania un gruppo di cyberfemministe si riunì in quello che fu chiamato First Cyberfeminist International. Da questo primo congresso emerse una lista di 100 antitesi su cosa non è il cyberfemminismo, che fece da guida a tutte le realtà a venire. Da quel momento le riviste e i collettivi cyberfemministi quadruplicarono in tutto il mondo, una spinta che coinvolse anche il nostro paese con la nascita, per esempio, di una rivista cyberfemminista, FikaFutura oppure con la nascita di quello che oggi è il più grande server europeo autogestito, che eroga servizi per gruppi e comunità, https://www.autistici.org/, nato grazie all’impulso di quello che successe a Milano nel 1997, ovvero l’occupazione del Deposito Bulk, un laboratorio da cui è emersa la nuova generazione di hacker che diede successivamente vita al progetto.
Il 1997 è anche l’anno in cui Sadie Plant, insieme con Haraway una delle più importanti teoriche del cyberfemminismo, fondava all’Università di Warwick la CCRU insieme al compagno, Nick Land, animata da molti intellettuali di spessore di stampo anticapitalisti, come Mark Fisher. Sempre in quell’anno la Plant dava alle stampe Zero, Uno di cui rimando direttamente alle parole di Fisher:
“In Zero, Uno di Sadie Plant la tecnologia selvaggia e inaddomesticabile è sovrapposta al soggetto eccentrico del femminismo, alle amazzoni di Monique Wittig e a tutte le donne irregolari e anonime, contabili, centraliniste e segretarie, scienziate e matematiche, che hanno fatto il ‘dietro le quinte’ della storia dell’informatica. Dalla prima ‘tessitrice’ all’androide, che è sempre per definizione una ginoide, in quanto soggetto subalterno e perturbante che ha da perdere solo le proprie catene, la storia delle macchine desideranti di Plant è una fabula speculativa di schiavә in rivolta.”
La tessitura è il filo conduttore di Zero, Uno in quanto per la Plant la civiltà non nasce con la scrittura, bensì con i processi tessili: lo strumento per eccellenza è la corda, e le reti e i sistemi di rete sono dei diretti eredi del filo. Il cyberfemminismo, per Sadie Plant, ci insegna a «tessere incantesimi attraverso la technoscienza femminista che ha a che fare con gli uno e gli zero, si ma anche no, e che ha a che fare con il fatto scientifico: si e no”». Per questo è più corretto distinguere il cyberfemminismo harawayano da quello della Plant: stessa base ed obiettivo teorico-politico ma diversa teorizzazione.
E così, con Manifesto cyborg da una parte e Zero, Uno dall’altra, si concepì una nuova visione femminista, di stampo tecnofemminista, che fece emergere un grandissimo numero di sotto-realtà come il Networked feminism. Dal cyberfemminismo sono emerse quindi tante sfaccettature e correnti, come il Glitch o lo xenofemminismo, quest’ultimo più strutturato e più in linea con la politica cyber, anche se con delle differenze.
Lo Xenofemminismo di Helen Hester
È difficile riassumere in poche righe cos’è lo xenofemminismo. In linea di massima, possiamo affermare che lo xenofemminismo è un’unione di più correnti complementari tra di loro, come il cyberfemminismo harawayano, il postumanesimo, l’accelerazionismo e tanto altro ancora, tutti perfettamente amalgamati per costruire un progetto completo che possa rispondere a tutte le esigenze di un mondo in perenne mutazione e invaso dalla tecnologia.
Il cyberfemminismo è stato una risposta quasi immediata al post-femminismo mentre lo xenofemminismo lo ha portato alle strette, attingendo più volte alla cultura e alla politica cyber ma estremizzandola in ogni suo campo. In particolare, lo xenofemminismo, o meglio lo Xenofemminismo di Helen Hester, «propone di configurare il potenziale sovversivo della lotta di genere in un mondo trasformato dalla tecnologia e dalla rivoluzione digitale», proprio come ci invita Haraway nel suo manifesto, tanto che in diversi punti, come nella lunga sezione dedicata alle “Tecnologie Xenofemministe” o alla “Riproduzione Xenofemminista”, sembra quasi un diretto erede, aggiornato di vent’anni, del cyberfemminismo harawayano, solo senza ironia e sicuramente più estremo: mentre Haraway, come abbiamo visto, ci propone di ripensare alla biologia, in quanto non obiettiva, Helen Hester ci dice chiaro e tondo che «se la natura è ingiusta, cambia la natura!» e ci propone un mondo dove non solo le differenze proliferano all’infinito ma che queste medesime differenze, agevolate dalle nuove tecnologie, creano un anti-naturalismo (un estremo di ciò che Haraway ci mostrava con il cyborg) che ha debellato il concetto stesso di naturale e ha concepito un’idea mutabile di biologia.
Va fatta una precisazione sul rapporto corpo-biologia: lo xenofemmismo non nega che «la realtà corporea contenga uno strato biologico”» quello che contesta è «l’idea che questo strato sia immutabile o fissato semplicemente perché è biologico». Da questo concetto possiamo capire meglio la concezione di “natura xenofemminista”: uno spazio di politica emancipatoria.
Proprio attraverso questo spazio emancipatorio, Hester cerca di abbattere le limitazioni all’identità di genere proponendo quello che nel manifesto viene chiamato “abolizionismo di genere” (anche qui con una forte contaminazione cyborg): lo xenofemminista è abolizionista di genere nel senso che «rifiuta la validità di ogni ordine sociale ancorato alle identità come criterio di oppressione e accoglie la diversità sessuata al di là di ogni binarismo». In altri termini, invece che produrre un mondo senza genere, come il termine provocatoriamente ci fa pensare, lo xenofemminismo vuole un mondo dove il genere si moltiplica, anche all’infinito, privo di ogni marcatore d’identità che possa produrre discriminazioni.
Da una parte, il cyberfemminismo harawayano immagina un futuro dove siamo tutti cyborg (anche se la maggior parte di noi per Haraway, come abbiamo visto, lo è già) lo xenofemminismo, invece, vuole costruire un futuro alieno tramite il concetto di queer, a suo modo erede del cyborg.
La domanda di base su cui si costruisce tutta la teoria della futurità xenofemminista, e quindi anche la base della sua politica, è: si può produrre una politica di genere che guardi al futuro, con tutte le esigenze che il contemporaneo comporta, senza cadere nella trappola del conservatorismo? In altre parole, è possibile pensare al futuro senza perpetuare la cultura della famiglia Mulino Bianco, eterosessuale e con bambini? Si può immaginare un futuro dove l’eterosessualità non sia la norma e la monogamia non sia imposta? È proprio qui che entrano in gioco gli alieni: i queer.
Da vocabolario, queer vuol dire strano, diverso, ed è stato un termine usato in modo dispregiativo nei confronti delle persone non etero nel diciannovesimo secolo. Oggi il termine è stato ampiamente inglobato dalla comunità Lgbt(qia)+ .
Guardando al futuro, le persone queer rappresentano la perdita dell’identità, un “altro incorreggibile”, ma rappresentano anche l’unica possibilità di costruire un futuro non eteronormativo: per la teoria xenofemminista, l’unica reazione sensata per contrastare il pensiero dominante è il rifiuto (per Haraway era il ripensamento): rifiuto delle politiche, rifiuto del bambino, rifiuto del futuro stesso. Bisogna abbracciare, dice Hester, ciò che il futuro riproduttivo ha già deciso per tutte le persone considerate aliene, abbracciare le imposizioni per combatterle dall’interno. In altre parole, il futuro riproduttivo dice che le persone aliene sono un “mucchio di queer in preda all’egoismo” ? Bene, così sia.
Questa visione è la stessa che Haraway propone tramite il concetto di nuove alleanze, spiegato più in alto, con lo scopo di controllare e cambiare dall’interno il dominio informatico e il nuovo assetto politico per una visione più etica: nel saggio Helen Hester ci mostra che non solo il consiglio di Haraway è stato ascoltato ma che ha avuto anche un grande impatto positivo sulla vita delle donne.
Secondo diversi studiosi e studiose, lo xenofemminismo è un ramo del cyberfemminismo: questa semplificazione, smentita tra l’altro fin dalle prime righe del manifesto della Hester, è fuorviante perché annulla tutti i progressi teorici, queer in primis, e de-potenzia il suo messaggio politico.
È vero che i punti in comune sono molti, primo tra tutti il considerare le tecnologie come fenomeni sociali (e quindi come strumenti modificabili tramite la lotta collettiva), ma i punti di evoluzione non si possono non considerare visto che rappresentano tutta l’azione politica e militante del pensiero xenofemminista. Più che un “ramo” del cyberfemminismo harawayano possiamo affermare con una certa sicurezza che lo Xenofemminismo di Hester rappresenta un’evoluzione a tutti gli effetti del pensiero di Haraway.
Lo xenofemminismo è un’evoluzione quasi dovuta del cyberfemminismo, in un certo modo teorizzato proprio affinché esso evolva, fino a trasformarsi in un qualcosa che il domani ci dirà: una sola cosa è sicura, sarà mutante come il cyborg e alieno come il queer.