Cuori puri: un’educazione sentimentale

Selene Caramazza (Agnese) e Simone Liberati (Stefano) in una scena del film. Fonte: mymovies.it

Opera prima di Roberto De Paolis, Cuori puri ha iniziato alla grande con l’anteprima avutasi a Cannes 2017 all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, sezione del festival che più delle altre sa diventare pozzo di novità ed opere sperimentali.

Cuori puri entra perfettamente in quella corrente di realismo che sta prendendo molto piede da noi, continuando la sua scalata oltre la coltre di commedie fin qui propinateci dalle produzioni e dalle distribuzioni, tutt’altro che gentili con esordienti e autori.

Opera cristallina e dura come un pugno nello stomaco, con uno stile conciso e dialoghi perfetti dalla lunga gestazione, il film racconta le storia di Agnese (Selene Caramazza) e Stefano (Simone Liberati), ragazzi di Tor Sapienza e vittime della vita del quartiere che sembra spaccato in due ma sempre sotto il segno del deperimento e del degrado.

Agnese, figlia remissiva e bloccata da una madre ossessivamente legata alla religione (interpretata da Barbora Bobulova con un’immedesimazione disturbante e perfetta), incontra Stefano quando per esasperazione ruba un cellulare nel supermercato dove lui lavora. La loro corsa iniziale decide già il tono del film: la camera li segue prediligendo il primo piano ed instaurando l’empatia fin da subito.

Impossibile non provarla quando si vede Agnese incosciente nella morsa del suo gruppo di parrocchia, che porta avanti un programma di castità per i ragazzi del quartiere o Stefano declassato da cassiere a controllore del più infame dei parcheggi su cui s’affaccia un campo rom, costretto poi a cercare soldi per la famiglia attraverso lo spaccio.

Simone Liberati (Stefano) e Selene Caramazza (Agnese) in una scena del film. Fonte: wikipedia.org

La conoscenza reciproca tra i due fa nascere l’attrazione, un amore fresco sporcato dall’esterno, un fiore che sboccia nel letame. Nella loro scena d’amore non c’è voyeurismo alcuno: c’è freddezza nello scavo ma anche l’empatia di chi comprende e non sforza nell’indagine, la quale dà spazio ad una pietà per niente affettata, che comprime il cuore.

I toni sono cristallini ma non hanno paura dell’abiezione, non l’edulcorano né vogliono buttarsi in analisi preconfezionate. Si fanno parlare i corpi e le situazioni. Soprattutto quelli dei due protagonisti sono scelti perfettamente e il duo (cosa bellissima a vedersi) funziona a meraviglia. Simone Liberati e Selene Caramazza hanno un’energia tale da essere una gioia per gli occhi.

Sullo sfondo si stagliano Stefano Fresi (che già era diventato iconico con Smetto quando voglio) nel ruolo di don Luca ed Edoardo Pesce nel ruolo di Lele, corruttore principale in questa storia di degradazione ed innocenza.

La resa dell’ambiente, al contempo naturalissima e studiata per ricalcare la base del soggetto, maggiormente esplicitata nel finale (due fatti di cronaca avvenuti a Torino e Roma rispettivamente) è perfetta nella sua sincerità e nell’adesione allo sfondo urbano.

Quest’opera prima, dura, limpida e disturbante, lascia il segno facendo entrare e capire laddove altri avrebbero appesantito con troppe analisi artificiose. Questi sono i film che riescono veramente a dirci dove siamo e dove stiamo andando come nazione e in fatto di arte filmica.

Antonio Canzoniere

 




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