Cultura umanistica fuori dalle task force: così l’Italia s’impoverisce

Cultura umanistica e task force per l'emergenza: che occasione sprecata per gestire la crisi e ricostruire cambiando l'Italia!

Cultura umanistica e task force per l'emergenza: che occasione sprecata per gestire la crisi e ricostruire cambiando l'Italia!

Cultura umanistica e commissioni per far fronte all’emergenza coronavirus e alle sue conseguenze: un matrimonio che non s’ha da fare, né domani né mai. Tanto nella task force di Vittorio Colao quanto nelle altre commissioni che supportano con le proprie competenze le decisioni del Governo mancano gli umanisti. Non è questione da poco. Non riconoscere il valore del sapere umanistico nell’affrontare la crisi e la ricostruzione significa preparare il terreno a una società in molti sensi più povera.

Nelle commissioni per far fronte all’emergenza in corso e ripartire la cultura umanistica è un’illustrissima assente. Nella squadra di Vittorio Colao prevalgono le competenze tecniche di carattere economico-gestionale. Dei 17 membri, 10 – tra top manager e studiosi – sono competenti in materia economica. A loro supporto, 4 esperti della qualità della vita e del lavoro, 2 giuristi e un esperto per l’innovazione. Nessun umanista pervenuto. Né le cose vanno meglio nelle altre commissioni. Un caso notevole è costituito dalla task force “Donne per un nuovo Rinascimento voluto dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti. Nonostante il nome, infatti, una sola componente, la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna Cristiana Collu, porta alla task force il contributo della cultura umanistica. Le altre esperte sono in maggioranza economiste e manager (7), supportate da 3 scienziate e da una specialista dell’informazione.

A qualcuno magari questo sembrerà un falso problema. Che dovremmo farcene, infatti, all’interno delle commissioni chiamate a gestire l’emergenza e capire come ripartire, di esperti di cultura umanistica?

Questo modo di ragionare ripropone l’inveterata separazione tra sapere tecnico-scientifico e sapere umanistico, che in Italia sembra quasi endemica. Da una parte la produttività, l’innovazione, il guadagno; dall’altra le divagazioni intellettuali – affascinanti, qualche volta anche redditizie ma decisamente incapaci di proporre strategie concrete, risolutive. Ora, continuare a ragionare in questi termini, squalificando la cultura umanistica e trascurandone le potenzialità nell’offrire un contributo per il superamento della crisi, ci costa. Ci costa perché, portando avanti un pregiudizio duro a morire, perdiamo importanti occasioni di modernizzare il Paese, rendendolo non solo più competitivo ma migliore. Stiamo continuando a dilapidare l’importantissima risorsa che la cultura umanistica costituisce e, semplicemente, non possiamo più permettercelo. Perché continuare a farlo significa avviare l’Italia a essere un Paese più povero, economicamente e umanamente.




Il costo del non prendere in considerazione seriamente il contributo della cultura umanistica per affrontare la crisi e ripartire è anzitutto di natura economica.

Nel settembre del 2018 il miliardario americano Mark Cuban in un’intervista ad ABC sorprendeva tutti affermando:

tra dieci anni, una laurea in filosofia varrà molto di più di una laurea in informatica.

Secondo Cuban, lo sviluppo della tecnologia relativa all’intelligenza artificiale cambierà radicalmente il mercato del lavoro. L’intelligenza artificiale, in effetti, arriverà ad auto-programmarsi. Inevitabilmente, molte professioni ne faranno le spese. Per questo il miliardario sostiene la necessità di studiare discipline che affinano il pensiero critico e la capacità di valutare le situazioni in prospettiva globale. Discipline che sono, di fatto, patrimonio della cultura umanistica.

In Italia, purtroppo, la cultura umanistica viene però generalmente vissuta come intrattenimento, come un hobby che nobilita chi lo pratica. Così, mentre Google assume umanisti nei propri quadri dirigenti e prospera, in Italia tanti laureati in discipline umanistiche fanno la vita degli idealisti squattrinati. Trattati come chi non possiede né una vera competenza né un vero mestiere.

Si potrebbe obiettare che anche in Italia alcune grandi aziende si sono mosse in questa direzione. Presumibilmente, peraltro, molti degli esperti presenti nelle task force coltivano la cultura umanistica nel contesto di corsi e strategie aziendali, o semplicemente per passione.

Vero. Eppure, a chi muova questa obiezione chiederei se preferirebbe farsi curare da un medico o da un architetto appassionato di medicina. Se si rivolgerebbe per un consiglio legale a un avvocato o a un chirurgo che abbia seguito seminari di giurisprudenza. Nella vita di ogni giorno, per avere consigli o risolvere problemi ci rivolgiamo agli esperti. Da costoro esigiamo solide competenze: vogliamo che si siano dedicati a lungo alla materia e che l’abbiano sperimentata nella vita reale. Non ci accontentiamo di chi l’ha coltivata come una curiosità, nei ritagli di tempo. In quasi tutti i casi, almeno: non quando si tratta della cultura umanistica. Eppure, anche gli umanisti possiedono competenze specifiche, affinate da un lungo impegno nelle discipline cui si sono dedicati. Competenze che sarebbero assolutamente preziose per fronteggiare l’emergenza in corso.

Chi si forma in una disciplina umanistica acquisisce competenze che coniugano metodo e creatività, permettendo di ricomprendere problemi circoscritti in un orizzonte globale. Non solo. La competenza più importante che matura l’umanista, in realtà, è questa: il saper affrontare le domande di senso che emergono nella vita.

Gli economisti, gli ingegneri, i manager di fronte agli interrogativi sul senso della vita e del nostro agire sono semplicemente uomini e donne. Come strumenti per orientarsi hanno a disposizione soltanto le convinzioni maturate vivendo e, nel caso migliore, dialogando con altri e con qualche lettura. E questi strumenti vengono chiamati in causa solo in momenti particolarmente difficili, come una crisi esistenziale o, come sta avvenendo oggi, un’emergenza sociale. Gli umanisti, invece, dispongono dell’intero patrimonio di domande e risposte che sono state formulate sul senso della vita nel contesto della nostra tradizione culturale. Possono pensare con – o contro, come talvolta succede – le menti migliori che si sono avvicendate nel corso dei secoli. E sono tenuti a farlo, perché la formazione stessa che ha luogo nella cultura umanistica non lascia eludere facilmente certi interrogativi. Anche e soprattutto in tempi non sospetti.

Siamo in piena emergenza a causa del coronavirus e della disastrosa crisi economica che potrebbe esserne conseguenza. Non c’è tempo per filosofeggiare e interrogarsi sul senso della vita! Le priorità sono altre, è assurdo contestare l’assenza di esperti della cultura umanistica nelle commissioni per affrontare la situazione. Oppure no?

Le task force di cui parliamo hanno la responsabilità di raccomandare una linea d’azione al Governo. Essa avrà un impatto sulla vita di 60 milioni di Italiani. Ciò significa che in quelle commissioni, oggi, si sta decidendo del futuro di tutti. Ma il futuro della collettività si decide sempre in base a una certa idea dell’umano e del senso della vita. Implicita o esplicita, irriflessa o meditata che sia, quell’idea informa di sé le decisioni e i provvedimenti presi. Ora, senza la cultura umanistica quell’idea dipende dalla più potente forza oggi in gioco: la mano invisibile del mercato. Ecco perché le conseguenze dell’assenza degli umanisti dalle commissioni per l’emergenza rischiano di essere decisamente infauste. Come scriveva nel 2018 lo storico Yuval Noah Harari,

a meno che non siate felici di affidare il futuro delle nostre esistenze alle rilevazioni trimestrali di fatturato, servirà un’idea chiara del senso della vita.

L’emergenza in atto non ha reso inattuali le domande su chi sia l’essere umano e quale sia il senso della sua vita. Al contrario, le ha rese ancora più urgenti, non più rimandabili. Perché è anche in base alle risposte che siamo disposti a dare a esse che il nostro futuro prenderà forma.

Liquidare la questione come “non prioritaria”, relegarla a un secondo tempo, è già una sconfitta. Perché nel farlo stiamo affidando il compito di plasmare il futuro a saperi che, pur essendo fondamentali, subordinano l’importanza del “perché” a quella del “come”. Senza la mediazione della cultura umanistica quel futuro potrebbe avere un volto molto meno umano di quanto vorremmo. Senza la mediazione della cultura umanistica, questo è certo, stiamo perdendo l’occasione di costruire un’Italia migliore.

Valeria Meazza

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