Cultura, Identità e Conflitto: la questione israelo-palestinese oltre lo “scontro delle civiltà”

scontro delle civiltà

La ripresa in grande stile del conflitto israelo-palestinese ha rispolverato la tesi utilissima e mai totalmente dimenticata dello “scontro delle civiltà”, nel segno della contrapposizione tra democrazia e autoritarismo, alimentando la visione un’Occidente autoreferenziale, oasi di libertà e giustizia, in guerra contro il resto del mondo.

«Non puoi fare una frittata senza rompere le uova». Con questa frase lo storico
israeliano Benny Morris, professore all’università Ben Gurion, rispondeva, nel
gennaio 2004, ad alcune domande polemiche del giornalista Avi Shavit, del quotidiano Ha’aretz,  che lo incalzava di essere apertamente anti-sionista. La frittata, fuori dalla metafora, era ovviamente la fondazione dello stato di Israele: il peccato originario che ha innescato la deflagrazione ancora in atto dopo settantacinque anni. Eppure, l’immagine, al limite del banale, contenuta in quella frase ben sintetizzava l’atteggiamento del mondo occidentale riguardo alla questione israelo-palestinese,  declinata da sempre nel contesto di un ineluttabile  “scontro delle civiltà” che vedrebbe in lotta il mondo liberal-democratico contro quello arabo, animato dal fondamentalismo islamico e da una profonda avversione  per la “nostra” idea di democrazia.

A trent’anni dalla pubblicazione dalla fortunatissima riflessione del politologo Samuel Huntington, “The Clash of Civilizations”,  apparsa nel 1993 sulla rivista americana “Foreign Affairs” , l’espressione “Scontro delle civiltà”   continua a godere di un ampio respiro soprattutto al di fuori delle aule universitarie. La particolarità di questa circostanza ha provocato però un’inflazione delle citazioni che prendono in considerazione le tesi del docente americano per spiegare questioni in realtà ben più complesse. Un esempio su tutti di questo modo di sragionare, riguarda proprio noi occidentali che siamo soliti ricorrere al ritornello dello “scontro tra culture e religioni” quando vediamo confutati, ancor prima dei nostri ideali, i nostri interessi.

Lo “scontro delle civiltà” nel conflitto israelo-palestinese

Nelle sue riflessioni,  Huntington poneva al fondo della  tesi dello “scontro delle civiltà” il conflitto latente tra le identità culturali e religiose degli individui, considerato inevitabile nel mondo post Guerra Fredda per almeno tre motivi sostanziali. Un primo aspetto riguardava la profonda e insuperabile differenziazione, tra civiltà dovuta a lingua, cultura, tradizione e, soprattutto, religione.


Un ulteriore aspetto, guardava, invece, al complesso problema delle interazioni tra gruppi umani, sempre più in aumento in tutto il mondo. Poiché siamo sempre di più sul pianeta, l’intensificarsi di queste relazioni si tradurrebbe sempre in uno scontro piuttosto che in un confronto. Questo modo di rapportarsi alimenta a sua volta   la “coscienza della civiltà” in un gioco a somma zero incapace di lasciar emergere le aree di intersezione possibili tra le diverse civiltà.

Sulla base di questi due aspetti, nel caso specifico del conflitto tra israeliani e Palestinesi, la frattura evidente fra il mondo arabo e l’idea di Stato democratico di diritto fatta propria da Israele è destinata a diventare sempre più profonda e ingestibile.  Infine, come terzo elemento di discontinuità, Huntington chiamava in causa direttamente il modello economico della democrazia liberale, in aperto contrasto con il crescente regionalismo economico che caratterizza la coscienza della civiltà non occidentali e in particolare il mondo arabo.

A proposito di Israele, Huntington era convinto che lo stato israeliano potesse essere considerato uno “stato unico con una propria civiltà” ma estremamente simile all’Occidente.

Il politologo statunitense è morto nel  2008, ma il dibattito intorno allo “scontro delle civiltà” non è ancora terminato. Nello stesso anno della dipartita terrena di Huntington,  Israele lanciò l’operazione militare  Horef Ham (Inverno caldo) in risposta al lancio di alcuni razzi sparati da Hamas dalla Striscia di Gaza che uccise tre cittadini israeliani. La controffensiva delle Forze di Difesa dello Stato Ebraico provocò la morte di 112  palestinesi. In quell’occasione,  l’Unione europea condannò quello che definì un «uso sproporzionato della forza» da parte di Israele a Gaza, dopo che 54 palestinesi erano rimasti uccisi nel primo giorno del conflitto, il numero più alto dall’inizio delle violenze nel 2000.

Il malinteso senso di superiorità occidentale

I teorici della democrazia occidentale hanno avuto come modello iniziale l’organizzazione politica della Grecia antica e, in particolare, dell’Atene del V secolo a.C., per passare poi al modello statunitense, non senza intervalli storici nel mezzo (la Gloriosa Rivoluzione Inglese del 1688-89 e ovviamente la Rivoluzione Francese).

E tuttavia, è bene non dimenticare come alla base del modello democratico occidentale vi sia sempre stata una distinzione, un taglio netto tutt’altro che inclusivo attraverso cui è stato possibile delineare la figura del libero cittadino in contrasto a tutti coloro i quali non avevano i prerequisiti per essere definiti tali.

Nell’Atene del V secolo, ad essere escluse dalla cittadinanza erano ad esempio le donne e gli schiavi; e ancora, con la Rivoluzione Francese  i concetti di ‘Uomo’, ‘cittadino’, ‘nazione’ e ‘diritti’ (doveri) entrarono per la prima volta in relazione tra loro, talvolta sovrapponendosi, talvolta escludendosi vicendevolmente, ma si ritrovarono per lo più immersi in paradigmi concettuali e ideologici confusi, rarefatti o distanti, che  consolidarono l’idea  autoreferenziale di un’autorappresentazione della mentalità occidentale in aperta opposizione a ciò che è estraneo ad essa in virtù della sua diversità.

Tale visione di inclusione/esclusione, noi/loro,  ha alimentato la giustificazione ideologica del razzismo moderno e contemporaneo non soltanto su base biologiche ma anche culturali e intellettuali attraverso la rappresentazione di un pensiero “forte” occidentale in mezzo a una moltitudine di culture più “deboli” e aggressive, pronte a distruggere quanto di buono e giusto era stato realizzato dalla nostra civiltà nel corso della storia umana.

Il lato oscuro della democrazia

Nonostante Huntington fosse convinto che il tempo dell’ideologia fosse ormai tramontato, la parentela ideologica tra identità culturale e identità nazionale, costituisce il principio discriminante, nonché il vero e proprio motore dialettico della tesi dello scontro delle civiltà poiché che amplifica volutamente la dinamica del conflitto nemico-amico schierando da un lato gli ormai tristemente famosi “arsenali della democrazia” e dall’altro il resto del mondo ostile.

Tuttavia, i diffusi processi di “indigenizzazione” delle culture non occidentali e il rifiuto da parte di queste del nesso tra modernizzazione e occidentalizzazione, che secondo il politologo statunitense avrebbero delineato in maniera sempre più netta i rapporti di potere tra “noi” occidentali e il resto del mondo, non hanno mai trovato un’applicazione piena e omogenea nel caso specifico del conflitto tra israeliani e palestinesi.

La questione palestinese ruota attorno a un nodo eminentemente politico mentre alla radice dello scontro delle civiltà Huntington poneva sempre elementi culturali e religiosi. E difatti, per il politologo americano la civiltà occidentale  rappresentava l’eccezione che conferma la regola, essendo nata sotto i principi e gli auspici della democrazia liberale.

Ma se prendiamo per buona l’idea di Huntington e assimiliamo lo stato d’Israele al modo di pensare e di agire proprio della civiltà occidentale,  di riflesso avremo che anche la popolazione israeliana, proprio come quelle dei paesi occidentali, si ritroverà ad essere calata nella realtà di una democrazia liberale diventando pienamente responsabile  delle scelte attuate dai propri governanti anche in merito alla gestione della questione palestinese.

Il mondo delineato da Huntington è dominato dalle civiltà e le alleanze e il comportamento delle istituzioni nazionali vengono sempre dettati dall’affiliazione culturale, nonostante lo stato rimanga l’attore centrale nella politica mondiale.  Eppure, in settantacinque anni di guerra il popolo israeliano non ha mai spinto lo stato ebraico a intraprendere azioni di guerra deliberata contro i palestinesi, a occupare i territori della Cisgiordania o a strumentalizzare Hamas per indebolire ulteriormente l’Autorità Nazionale Palestinese boicottando una soluzione politica del conflitto. Semmai, è accaduto il contrario: il potere centrale ha influenzato spesso e volentieri l’opinione pubblica fomentando la dinamica dello scontro e facendo propria la manifesta e autoreferenziale superiorità degli occidentali rispetto a tutti quanti gli altri. 

Sul piano logico, il teorema occidentale, sul quale si fondano anche la tesi di Huntington, dovrebbe far salve proprio le popolazioni dei paesi non democratici che non hanno voce in capitolo sulle scelte delle loro classi dirigenti. In realtà, però,  la retorica occidentale è fallace poiché è consapevole di dover celare al proprio interno il fatto che la democrazia liberale non ha mai cercato la gestione diffusa del potere; così come sa benissimo che gli stati non cesseranno mai di esercitare un ruolo rilevante e decisivo nelle comunità umane ma vorranno orientare le proprie scelte strategiche innanzitutto secondo processi di identificazione culturale, preferendo  lo scontro piuttosto che il confronto. Del resto,  quanto è accaduto in Israele nei lunghi anni di regno di Benjamin “Bibi” Netanyahu conferma pienamente la fallacia logica del teorema occidentale.

Se volessimo essere coerenti con quello che predichiamo, non con quello che pratichiamo, sarebbe forse più opportuno rimettere in discussione questo malinteso senso di democrazia che giace al fondo dell’autorappresentazione della civiltà occidentale invece di appellarci al solito stanco copione dello “scontro di civiltà”.

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

 

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