Porci e wifi
“Amo esta isla”, scrive una mano ignota su un muro sulla strada per l’aeroporto “Josè Martì”. Un’isola in cui capita che la prima pagina di uno dei pochi quotidiani nazionali, Juventud Rebelde, organo dell’Unione dei Giovani Comunisti e principale fonte di notizie insieme al Granma, foglio ufficiale del Partito Comunista, titoli contemporaneamente sulle celebrazioni in ricordo del 56esimo anniversario della battaglia della Baia dei Porci, storia e leggenda dal sapore e dal linguaggio antico, e sull’apertura di una nuova panetteria per celiaci a Villa Clara e a Santiago de Cuba.
“Possiamo usare il wifi solo da poco”, racconta Gabriel, gestore di una casa particular a Morón. “Ho un’amica cubano-statunitense che vive a Las Vegas. Mi manda le foto dei bambini. Scatta, e la foto è già sul mio schermo qui mentre ancora sta succedendo lì. È incredibile”. Due anni fa, meno del 6% della popolazione aveva un accesso internet a casa.
Secondo l’International Telecommunications Union, tra il 2013 e il 2015, la percentuale di cubani che usa internet ha superato il 35%. Oggi Gabriel si fa spiegare come funziona Google Maps da alcune visitatrici austriache di passaggio. Ha 74 anni e da 22 mette la sua casa a disposizione dei turisti: più o meno da quando Cuba ha legalizzato il dollaro, cominciato ad aprire al turismo e a un minimo di iniziativa privata nel tentativo di superare il “periodo speciale”, il collasso economico coinciso con quello dell’Unione Sovietica dei primi anni ‘90.
Sono le 11 di sera, fuori c’è musica: a Morón c’è la festa della città. Un doppio violento acquazzone sembrava aver bloccato le bancarelle, deserte e abbandonate in mezzo alle strade allagate. Poi la pioggia ha dato tregua e la festa è ricominciata. Da qui, racconta Gabriel, passano soprattutto italiani e spagnoli. “Ho un amico che vive al confine tra l’Italia e la Svizzera e ha un ristorante lì. Ogni anno viene per tre mesi da me. Anche quattro: per rinnovare il visto esce un attimo da Cuba, sta tre, quattro giorni in un paese qui vicino e poi torna. Qui caccia, va in giro. Gli piace la negra (sic!)”. E italiano è stato anche il suo primissimo ospite, più di 20 anni fa. “Posso dire? Non ti offendi?”. E chi si offende. “A Cuba ci sono orde di italiani“. E gli americani? “Qualcuno capita, sì, nelle casas particulares. Ma sono pochi”, dice. “Quelli vanno soprattutto nel circuito degli hotel. Per maggiore controllo”. Alza di nuovo gli occhi al cielo. “Lo sai che io c’ero, alla Baia dei Porci?”, chiede, più a se stesso che me. “Avevo diciotto anni. Quando sono arrivati ero di stanza all’Avana e ci hanno mandati di corsa lì a Playa Giron. È stato un incubo: solo acqua e fango, mitragliatrici e mortai. Ho ucciso, quel giorno. Guarda, ho la pelle d’oca nel ricordarlo”.
Nelle città, inattesi, si incrociano puntualmente angoli in cui la concentrazione di persone è più elevata. Tutti chini sul proprio telefono: dall’atteggiamento e dalla folla, è possibile capire che quello è un hotspot Etecsa, la compagnia statale di telecomunicazioni di Cuba. È così che si scopre come funziona internet nell’isola. Fino a pochi giorni fa, per usare il wifi, cubani e non cubani acquistavano una “tarjeta” a 4.50/5 euro l’ora, utilizzabile per accedere alla rete (spesso congestionata, inaccessibile o lentissima) nei punti di copertura Etecsa, generalmente angoli nei centri delle città. Da qualche giorno la tariffa è decisamente più bassa: 50 centesimi di cuc per i cubani, 2.50 per gli stranieri cui viene richiesto il passaporto per l’acquisto della card. Da poco, Google ha acceso i suoi server a Cuba, diventando così la prima internet company straniera a operare nell’isola.
A Cuba, la gente sembra in perenne attesa. Seduta su una sedia a dondolo fuori dalla porta di casa, in città come in provincia. Ai bordi delle strade. Nelle pensiline di pietra bianca in cui si aspetta un qualche mezzo di trasporto che sembra non arrivare mai. In piedi davanti alla si aspetta un qualche mezzo di trasporto che sembra non arrivare mai. In piedi davanti alla porta di casa, spesso. Immobili. Forse non aspettano niente. Forse, semplicemente, stanno.