Pur potendo fuggire e salvarsi la vita, il filosofo Socrate – ingiustamente condannato dal tribunale di Atene – scelse di morire rispettando le leggi della città. Che senso ha questa scelta, che a noi oggi appare incomprensibile? Il dialogo platonico Critone ci aiuta a chiarirla. Nella prospettiva di Socrate, infatti, vivere è anche rifiutarsi di abiurare i valori in cui più fermamente si crede. Salvarsi la vita andando contro la propria coscienza è indegno di una persona che abbia stima della propria libertà, interiore non meno che esteriore. Un’apologia dell’autenticità e della coerenza individuali, dunque? In realtà c’è di più. Nel Critone, infatti, si chiarisce come il rispetto della legge da parte del cittadino sia il fondamento necessario della comunità.
È ancora notte quando Critone, uno dei discepoli di Socrate, corrompendo una guardia si introduce nel carcere di Atene per far visita al maestro. Nella sua cella il filosofo dorme placidamente e Critone aspetta, non osando disturbarlo anche se ha il cuore gonfio d’angoscia. Siamo nella primavera del 399 a.C.: Socrate è in carcere da quasi un mese. Il tribunale di Atene, infatti, lo ha ingiustamente giudicato colpevole di empietà e di corruzione dei giovani e condannato a morte. L’esecuzione della sentenza, però, ha dovuto essere rimandata. Il giorno prima del processo, infatti, era partita per Delo una nave mandata annualmente dagli Ateniesi come ex-voto al dio Apollo. Fino al ritorno di questa nave, ad Atene tutte le condanne a morte saranno sospese. Tuttavia, da Capo Sunio, ultima propaggine dell’Attica, giunge voce che la nave è in vista: non manca ormai molto al suo arrivo ad Atene.
Il tempo a disposizione di Socrate sta per scadere. Critone lo sa e non intende restare a guardare. È un uomo nobile, ricco e influente: ha amici stranieri disposti ad aiutarlo a far fuggire Socrate da Atene e ad accoglierlo, garantendogli protezione. Il momento di convincere il filosofo a evadere, dunque, è ora o mai più.
Quello di Critone, come testimonia lo storico Diogene Laerzio ne Le vite dei filosofi, non è certo il primo tentativo di persuadere Socrate a salvarsi. A tutti i discepoli che si sono presentati con preghiere e piani per eludere l’esecuzione il filosofo ha dato la medesima risposta. La ripete ancora una volta a Critone, dopo aver ascoltato un po’ insonnolito la notizia dell’imminente arrivo della nave:
Se così piace agli dei, così avvenga […]. Sarebbe proprio fuori luogo che un uomo della mia età si lamentasse, a questo punto, di dover morire!
Socrate, così come Critone, ha all’incirca settant’anni e – a differenza del suo discepolo – nessun timore della morte.
Conoscendo il suo maestro, il discepolo sa che non è sulla paura che può far leva. Per persuaderlo a fuggire, allora, decide di provare con altri argomenti.
Anzitutto, Critone tenta di far mettere Socrate nei panni degli amici e dei discepoli che lo sostengono. Molti di loro, infatti, appartengono alle famiglie più in vista di Atene: sono aristocratici o figli di ricchi commercianti. La gente – sostiene Critone – penserà che costoro fossero troppo pigri e troppo avari per impegnarsi nel salvare Socrate, uomo povero per nascita e per scelta. Così, al dolore per la perdita di un amico inestimabile si aggiungerà la vergogna del biasimo collettivo. Inoltre, secondo Critone, così facendo Socrate tradisce sé stesso, perché si arrende alle trame dei nemici che l’hanno trascinato in tribunale e fatto condannare ingiustamente. Infine, ancora peggio, il filosofo abbandona i propri figli, scegliendo di lasciarli senza padre quando potrebbe continuare a vivere per educarli. Socrate ascolta quasi senza interrompere, il volto sgraziato da Sileno di pietra assorto. Quando risponde, il rimprovero che rivolge al discepolo è durissimo.
«Amico mio, la tua preoccupazione sarebbe degna di molta riconoscenza», dice Socrate, «se solo si accompagnasse alla rettitudine. Invece, è tanto profonda quanto penosa». Il filosofo non può apprezzare il consiglio del discepolo perché, essendo dettato dall’angoscia, esso non considera cosa sia giusto e cosa no.
Per fargli capire il suo errore, Socrate lo interroga così:
Forse, prima che io dovessi morire, ci dicevamo ragionando cose giuste e, invece, ora è diventato evidente che le dicevamo tanto per dire? I nostri discorsi, dunque, erano solo sciocchezze?
I discorsi cui allude sono, naturalmente, quelli riguardanti l’etica e il modo migliore di vivere. Su quest’ultimo tema, in particolare, il filosofo rifletteva quotidianamente con i discepoli. Non solo. L’abitudine di Socrate di interrogare i concittadini mettendoli alle strette sulle loro scelte di vita aveva condotto alla sua condanna a morte.
Ora, nell’insegnamento socratico un punto doveva essere particolarmente chiaro ai discepoli: come Socrate ricorda a Critone,
non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene.
Che cosa significa “vivere bene”? Socrate non ha dubbi: significa vivere secondo giustizia e virtuosamente.
«Dunque,» prosegue Socrate «bisogna che consideriamo se sia giusto che io cerchi di lasciare Atene contro il volere degli Ateniesi, o se sia ingiusto».
Già in passato Socrate e Critone hanno avuto modo di discutere di giustizia insieme agli altri discepoli. Allora – ricorda il filosofo al suo interlocutore – concordavamo almeno su un punto: commettere un’ingiustizia è vergognoso. Meglio riceverla che commetterla: per questo, anche se si riceve un torto, esso non va restituito né con la violenza né con un’altra ingiustizia. Incalzato, il discepolo si dice ancora convinto della bontà di quel principio. È a questo punto che il maestro, come ha fatto molte volte in passato, lo sorprende. Infatti, dopo aver fatto ammettere a Critone che anche il danneggiare qualcuno significa commettere ingiustizia, Socrate dice:
Considera questo con attenzione. Se ce ne andremo da qui senza aver convinto Atene dell’errore, danneggeremo qualcuno: proprio chi meno dovremmo.
Di chi sta parlando?
Secondo Socrate, a fare le spese della sua fuga sarebbe nientemeno che la costituzione stessa di Atene.
Il filosofo riesce quasi a immaginarsi le leggi ateniesi mentre, severe, gli si parano davanti intanto che cerca di svignarsela. Esse, spiega Socrate a Critone in una delle pagine più belle della letteratura antica, lo apostroferebbero così:
Socrate, che hai intenzione di fare? Quale risultato pensi avrà questa azione, se non il distruggere noi che siamo le Leggi e tutta quanta la Città, per quanto dipende da te? O forse credi che possa ancora esistere, senza essere interamente sovvertita, quella città in cui le sentenze non hanno vigore? Quella Città in cui i cittadini destituiscono i verdetti della loro autorità e ne fanno ciò che vogliono?
Se Socrate fuggisse e si sottraesse alla condanna, costituirebbe un precedente a causa del quale le leggi perderebbero credibilità.
«La giustizia», spiega Socrate a Critone per bocca delle leggi, «consiste nel fare – in tribunale, in guerra e in ogni contesto – ciò che la Città comanda, oppure mostrarle in cosa consista il giusto e persuaderla. Servirsi della violenza e dell’inganno, invece, non è accettabile».
In altre parole, chiarisce Socrate, esiste un patto tra cittadino e città. Esso s’instaura per nascita, si rafforza con l’educazione ed è definitivamente sancito dall’acquisizione – superando un esame compiuti i diciotto anni – del diritto di cittadinanza. Scegliere di continuare a vivere nella città significa dare il proprio assenso alla sua Costituzione o impegnarsi a contribuire al suo miglioramento. Per settant’anni Socrate è vissuto ad Atene, amando profondamente la città. Qui si è sposato e ha cresciuto i propri figli. Ha dato il proprio contributo in guerra, difendendola con valore, e in pace, cercando di mostrare ai propri concittadini come vivere bene. Da Atene, gli fanno presente le leggi
sei uscito meno degli zoppi, dei ciechi, dei mutilati. Così tanto, più che agli altri Ateniesi, ti piaceva la città. Evidentemente ti piacevamo anche noi Leggi: infatti, a chi piacerebbe una città senza Leggi? E ora ti rifiuti di stare agli accordi?
Fuggire dalla città e vivere da straniero, in balia della sorte e del capriccio dei protettori, sarebbe una vergogna per qualsiasi uomo greco. Ma per un filosofo come Socrate, che si occupa di etica, di giustizia, di virtù, sarebbe ancora peggio.
Infatti, lo provocano le leggi,
oserai avvicinarti a uomini per bene e non arrossirai a ragionare di… Quali dottrine, Socrate? Forse di quelle che qui sostenevi? Che la virtù e la giustizia devono essere degne per gli uomini della più alta considerazione, come le azioni conformi alle Leggi e le Leggi?
E questa vergogna non si limiterebbe a Socrate. Essa ricadrebbe anche sui suoi figli, nonché sugli amici, che certo riceverebbero danni economici e politici dall’averlo aiutato a fuggire. Che razza di padre, che razza di uomo permetterebbe questo? Non certo colui che è passato alla Storia per essere stato l’uomo più giusto del suo tempo.
Per questa ragione Socrate deve morire. Critone, affranto, alla fine del dialogo deve cedere alle inoppugnabili ragioni del maestro. E rendersi conto che c’è qualcosa che il suo denaro non può comprare: la coscienza di un uomo come il filosofo che ha di fronte.
Leggendo questo dialogo alcuni forse saranno tentati di definire Socrate un folle. Un deficiente. Un uomo ridicolmente schiavo del senso del dovere. O un filosofo così impelagato in ragionamenti astrusi da non riuscire a salvarsi la vita. Le cose stanno davvero così?
Il Critone ci consegna il ritratto di un filosofo disposto ad incarnare completamente l’etica che professa. Per Socrate teoria e prassi non sono separabili: nessun principio è valido se non si è disposti a mettere in gioco la vita in esso. La forma del pensare è la forma del vivere e non fa sconti. Forse Socrate è, come sostengono le leggi a un certo punto, «creatura e servo» dell’ordinamento di Atene. Ma è un ordinamento che sceglie liberamente di servire fino alla morte. Diventando, così, simbolo dell’ingiustizia dei processi politici del tempo, un monito contro la cattiva applicazione delle leggi.
Noi diamo per scontato di essere più liberi di Socrate.
Non moriremmo mai per le leggi, farraginose e spesso palesemente inique, di uno Stato nel quale il malaffare è la norma. Ma, allorché rinunciamo a dare un contributo al miglioramento delle leggi e accettiamo di eluderle, siamo davvero più liberi? Non sarà forse che, compromesso dopo compromesso, diventiamo più schiavi dell’amministrazione e della politica peggiori?
Forse, oggi più che mai, l’esempio di filosofia radicalmente vissuta da Socrate è la lezione di libertà più preziosa che potremmo ricevere.
Valeria Meazza