Di Benedetta Piola Caselli
Libano/Arabia Saudita: dichiarazioni del Ministro M. Cordahi generano violentissime reazioni diplomatiche.
Un nuovo colpo di scena scuote il Libano e, come al solito, ha l’aria di essere pilotato.
Il Ministro dell’ informazione, M. Cordahi, noto giornalista, ha definito “assurdo” l’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen.
Reazione: immediato ritiro dell’Ambasciatore saudita in Libano, espulsione di quello libanese in Arabia, blocco dell’ import/export e – soprattutto – crisi dell’alleanza politico/economica che ha sostenuto fin qui il paese.
Contro reazione: il premier Mikati, sunnita, si è recato con il cappello in mano al Cop26, cercando la mediazione americana e francese.
Ma si è trattato di uno scivolone diplomatico o c’è dell’altro?
Cordhai ha commesso una “gaffe” che potrebbe essere recuperata con le sue dimissioni, come sostengono in molti, o si è trattato di un atto premeditato?
Le sue esternazioni rovinano la politica estera del paese, o spingono invece verso un cambiamento di asse?
Per capire questa storia bisogna tenere presenti alcuni particolari.
In primo luogo, le affermazioni del Ministro non nascono dal niente e riflettono una posizione ben precisa.
Infatti, il conflitto geopolitico che si gioca in Yemen è speculare a quello che si gioca in Libano, per fortuna ancora a livello solo latente: in entrambi i paesi è in ballo il confronto fra le stesse potenze, Iran e Arabia Saudita, nascosto sotto la stessa argomentazione del contrasto religioso fra musulmani sciiti e musulmani sunniti.
Le affermazioni di Cordhai sono quindi vissute come un problema identitario: gli sciiti supportano gli sciiti, e i sunniti supportano i sunniti.
In secondo luogo, l’incidente avviene in un momento ben specifico, e cioè dopo gli scontri di Tayouneh, a Beirut, di meno di tre settimane fa.
Il 14 ottobre, infatti, 8 persone sono morte e 60 sono state ferite in seguito alle sparatorie fra le Forze Libanesi, cristiane, e gli Hezbollah, musulmani sciiti, che protestavano contro l’ inchiesta sull’esplosione del Porto di Beirut.
Lo scontro è stato l’acmé di una tensione montata fin dall’estate, passo dopo passo, con il pretesto della fornitura del petrolio iraniano.
Per chi non ha seguito le vicende del piccolo paese, si può ricordare che il Libano nel 2019 è stato travolto da una crisi da sovraindebitamento che ha polverizzato il valore della moneta e il potere d’acquisto dei salari, mettendo in ginocchio ogni attività produttiva.
Ad una situazione già critica, da metà agosto si è aggiunto lo shortage di carburante, che ha significato settimane di blackout quasi totali, la chiusura di ospedali, scuole, enti assistenziali, la mancanza d’acqua, e un disagio intollerabile nella popolazione.
In questo quadro, l’unico aiuto immediato ed effettivo è arrivato proprio dall’Iran, che ha inviato un rifornimento di carburante violando l’embargo americano.
L’impatto sulla popolazione a livello di immagine è stato notevolissimo, ed ha spinto il fronte anti-sciita ad una serie di contromosse, fra cui il varo – dopo quasi due anni – di un nuovo governo, cosa che era sembrata impossibile fino a quel momento.
L’esecutivo è stato formato intorno a compiti ben precisi: gestire gli aiuti internazionali, negoziare sulla contesa con Israele relativa ai giacimenti off-shore, e arginare la popolarità crescente di Hezbollah, longa manus iraniana.
A tre settimane esatte dal voto di fiducia, ecco scoppiare gli incidenti di Tayouneh e, in seguito a quelli, 90 minuti di diretta TV del loro portavoce Nasrallah con la sfida ad attaccare i suoi “100.000 soldati armati”.
A tre settimane esatte dagli incidenti di Tayouneh, e proprio nel momento in cui i grandi della terra si incontrano al G20 e al COP26, ecco le dichiarazioni del Ministro Cordahi e le violentissime reazioni diplomatiche dell’Arabia Saudita e dei suoi satelliti.
Perché?
E perché ora?
L’Arabia Saudita e i paesi del golfo non potevano glissare, glissando o ridimensionando la cosa anziché reagire con un gesto così carico di significato diplomatico?
Queste sono le domande che si pongono i libanesi, che aspettano qualcosa di grave giorno dopo giorno: infatti, la polarizzazione degli interessi geopolitici non era mai stata così esplicita e così apertamente reclamata.
L’Arabia Saudita chiede, per riprendere i rapporti diplomatici, una presa di posizione forte contro Hezbollah – cioè chiede ad uno Stato estero di agire contro un movimento che, nel bene e nel male, rappresenta una parte della sua popolazione.
Inoltre, non è chiaro in cosa dovrebbe consistere in concreto la “presa di posizione”, dal momento che Hezbollah è un movimento con una forte componente militare, perfettamente armata, che non è possibile disarmare senza lo scoppio di una guerra civile.
E una guerra civile a bassa intensità è quello di cui si comincia a parlare, sempre più spesso, come di un rischio e – insieme e paradossalmente – come di un’opportunità, perché darebbe modo alla comunità internazionale di intervenire sotto pretesto di stabilizzare la regione e, così facendo, di prendere in mano le sorti politiche ed economiche di un paese sull’orlo del baratro.
L’anno scorso, dopo l’esplosione del porto di Beirut e la crisi di governo che sembrava irrisolvibile, fu lanciata su internet una petizione per invitare la Francia a ristabilire un protettorato sul Libano.
Non si capì se si trattò di uno scherzo provocatorio o di un atto di guerra psicologica, fatto sta che vennero raccolte migliaia di firme, soprattutto da parte di giovani di cultura elevata.
La petizione circolò qualche settimana, poi sparì e non se ne seppe più nulla.
Oggi, però, ritorna nei pensieri di molti, già pronti e desiderosi di partire e lasciarsi alle spalle una terra amatissima, ma in cui non vedono futuro.
Le prossime settimane ci diranno meglio cosa si prepara per questo sfortunato paese. Nel frattempo, chi può prepara le valigie.
Dopo ingegneri, medici, insegnanti, ora anche gli avvocati stanno per partire, e resta solo chi non può fare altrimenti.
Ma chi resta fa festa, ogni sera, bruciando le poche risorse.
Questa è la filosofia di vita che la generazione cresciuta con la guerra civile ha trasmesso ai figli, oggi ventenni: vivere al meglio e con gioia ogni giorno, nell’eventualità che non ne restino molti.