Può darsi che abbiate sentito, in questi ultimi mesi, parlare di “boom di ordini”, di “rincari in bollette” e di “impennata del gas”. Il mondo dell’industria, non solo italiana, infatti è nel caos e si rischia che, a breve, l’effetto domino dell’aumento del costo degli approvvigionamenti causi conseguenze devastanti sulle aziende e, dunque, sulle famiglie.
Ma quali le ragioni? È stato il Covid? Il lockdown? O c’è dell’altro? E quali, dunque, le soluzioni?
La crisi dell’energia
Qualche giorno fa, dalla provincia di Brescia, si è levato l’appello delle industrie al governo per risolvere, in fretta, la crisi del mondo dell’energia. Il costo dell’energia, dal gennaio del 2020, è infatti aumentato del 650% e l’aumento, coinvolgendo trasversalmente tutti i settori produttivi, rischia di tradursi in una tempesta perfetta. Produrre, in questo momento, non porta al profitto, ma sostanzialmente a perdite ingenti. La soluzione ipotizzata da alcune realtà per tamponare questa dispersione sembra essere quella delle chiusure temporanee.
Questo aiuta a tenere, momentaneamente, i conti in ordine, ma si sta già sperimentando uno dei primi devastanti effetti di questo espediente traballante: se le aziende sono chiuse, sugli scaffali dei supermercati non arrivano i prodotti, magari anche solo perché l’azienda che produce gli imballaggi ha momentaneamente fermato la sua attività. Tra qualche tempo, a pagare la crisi energetica saranno essenzialmente famiglie e conti pubblici, in una sorta di cassa integrazione di massa.
Le possibili soluzioni
Cosa è successo?
Da mesi si parla di rincari in bolletta per famiglie e aziende: dopo l’estate, infatti, giornali e telegiornali avevano annunciato un aumento vertiginoso dei prezzi. Non si tratta di un problema che sta affrontando solamente l’Italia, ma che riguarda tutti i Paesi che importano materie prime per produrre energia. La ripresa economica successiva al lockdown ha causato a livello mondiale un eccesso di domanda rispetto all’offerta e ha portato all’aumento del costo delle materie prime, in particolare del gas.
La ripartenza
A creare questo squilibrio, è stato anche l’ordine della ripartenza: la Cina, infatti, è stata la prima a uscire dall’emergenza e a riprendere la richiesta di gas, mentre le altre realtà erano ferme. Gli Stati europei, dunque, sono rimasti in fondo alla fila e hanno dovuto pagare energia, materie prime in generale e trasporti a caro prezzo. In numeri, in Italia, le imprese appartenenti ai settori cosiddetti “energivori” generano 88 miliardi l’anno di valore aggiunto: la loro vocazione primaria è quella verso l’esportazione, che vale il 55% circa del fatturato.
A essere interessati dalla questione sono i 350 mila dipendenti di queste realtà, che sfondano la soglia di 700 mila addetti se si guarda anche alle aziende collegate, il considdetto indotto.
Crisi dell’energia solo per le fonderie?
No, dunque. La crisi è trasversale a tutte le realtà energivore del Paese e sta colpendo con particolare violenza anche il settore agroalimentare. I dati Istat diffusi qualche giorno fa parlano di un aumento dei costi di produzione dei beni alimentari per il 5%, con punte anche del 20 o del 30%. A fronte di questi rialzi, fotografati nel mese di ottobre, i prezzi al consumo sono saliti solamente dell’1%. Anche in questo caso, vale il discorso dell’aut aut delle fonderie: o le aziende italiane si danno all’importazione dei prodotti esteri (con la mazzata finale sul Made in Italy) o chiudono.
L’effetto domino che si sta producendo rischia di essere devastante: il boom di ordini post lockdown e le criticità stagionali, oltre all’aumento dei costi degli approvvigionamenti, stanno creando veri e propri colli di bottiglia nelle forniture. Secondo Coldiretti, i prezzi dei cereali sono cresciuti di oltre il 23% nell’ultimo anno, così come i prodotti caseari. Lo zucchero ha aumentato il suo costo del 40% e i grassi vegetali hanno sbriciolato la barriera del 50%.
La crisi dell’energia sul settore primario
Come evidenziato da questo approfondito articolo sull’Huffington Post, il gas è fondamentale nella produzione dei fertilizzanti: i prezzi dei concimi sono arrivati alle stelle. L’urea, ad esempio, è arrivata a 850 euro a tonnellata, con un aumento di 500 euro (e del 143%). Fosfato biammonico, perfosfato minerale e fertilizzanti di base, come azoto, fpsforo e potassio, hanno subito una forte impennata. I costi notevoli dell’energia, ovviamente, si ripercuotono sui riscaldamenti delle serre, sull’essicazione dei foraggi, sulle macchine agricole e sul trasporto dei mezzi di ricambio.
La soluzione potrebbe essere, ovviamente, quella di aumentare i prezzi per il consumatore finale, ma il processo non è così immediato. La grande distribuzione organizzata (praticamente le catene di supermercati) pongono una sorta di filtro di accesso ai loro scaffali: praticamente non sono concessi aumenti unilaterali dei prezzi, ma questi rincari sono oggetto di contrattazione, soprattutto nei prodotti di private label (cioè quelli che riportano il marchio del supermercato stesso).
I supermercati, infatti, temono di vedere le loro vendite diminuire a fronte degli aumenti dei prezzi e dunque cercano di mantenerli invariati, per preservare la fetta di profitto che spetta loro. Questo problema, che già si ripercuote violentemente, sui giganti della filiera produttiva che hanno anche un potere contrattuale maggiore nei confronti della GDO, può avere effetti devastanti sulle realtà più piccole.
Qualcosa si muove
Il 15 di dicembre è arrivato un primo salvagente per i produttori italiani: non è più possibile, secondo il nuovo decreto, imporre condizioni contrattuali troppo gravose, come ad esempio la vendita dei prodotti alimentari al di sotto dei costi di produzione. Si tratta di una norma introdotta in attuazione di una direttiva europea, allo scopo di vietare le pratiche sleali nella vendita. 27, in particolare, le prassi falciate dal decreto: un passo avanti significativo, ma che comunque non elimina il problema del caro energia.
Se le aziende italiane chiudono, infatti, bisogna rivolgersi all’estero e importare, con conseguenze non indifferenti anche per l’ambiente: oltre ai costi di trasporto, secondo la Fao, un chilo di carne bovina prodotto in Italia emette il 20% delle emissioni di anidride carbonica di una produzione asiatica o sudamericana.
Elisa Ghidini