“Non una di meno”: il 26 novembre di quest’anno c’è stata a Roma una manifestazione composta da circa duecento mila partecipanti per dire basta alla violenza maschile sulle donne.
Fortunatamente il femminismo non è morto dopo la stagione dei movimenti, ma fa sentire alta la sua voce ancora oggi, nonostante questo sia un periodo dove la militanza in ogni senso stia ormai scomparendo.
E invece ci sono fino ad oggi donne che non si adeguano ad una società, nonostante le battaglie portate avanti negli anni ’70, ancora maschilista. Le donne hanno sofferto abbastanza, ed è il momento di fare qualche cambiamento, di modificare un mondo, che è stato da sempre quasi del tutto maschile.
Le donne devono parlare, confrontarsi, farsi forza per non permettere che le loro sofferenze e i loro sforzi vengano dimenticati e svaniscano nel vuoto.
Per poter cambiare le cose bisogna conoscere. Conoscere come la nostra società è arrivata ad essere quale ora è, per poi arrivare a capire come si sono venuti a formare i “generi”.
Il “genere” è qualcosa di ben diverso dal “sesso”: infatti una persona può percepirsi uomo, donna o in qualcosa di diverso da queste due polarità, dunque l’identità di genere non deriva necessariamente da quella biologica e non riguarda nemmeno l’orientamento sessuale.
I fattori biologici infatti influenzano solo in piccola parte l’identità di genere, sono invece i fattori sociali (famiglia, mass media e le altre istituzioni) ad avere un ruolo determinante.
Il comportamento di un individuo adulto è determinato prevalentemente dalla cultura del gruppo a cui appartiene: infatti la personalità di un individuo si forma a causa dell’interiorizzazione di una determinata cultura.
L’antropologa statunitense Margaret Mead introduce il concetto di transculturalità: studia in particolare diverse società della Nuova Guinea e le compara tra loro. In questo modo, arriva a concludere che le differenze di genere sono più dovute ad aspetti culturali che biologici.
In “Sesso e temperamento” (1935) compara infatti lo stile di vita di tre diverse popolazioni primitive: gli Arapesh, i Mundgumor e i Ciambuli. Gli Arapesh avevano per entrambi i sessi un ideale di femminilità; invece i Mundgumor avevano per entrambi i sessi un ideale di mascolinità; infine i ruoli di genere nella comunità dei Ciambuli erano per così dire “ribaltati” rispetto a quelli della nostra società. “Queste tre situazioni diverse e contrastanti suggeriscono una conclusione molto precisa. Se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili, – come la passività, la sensibilità, la propensione a curarsi dei bambini- possono tanto facilmente entrare a far parte del carattere maschile, e in un’altra tribù essere invece esclusi sia da quello maschile sia da quello femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza di uomini e donne, viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso” (Mead, 1935). Quindi l’assegnazione di certe caratteristiche umane a uomini e donne è arbitraria: i tratti maschili e femminili dipendono dal condizionamento culturale della società d’appartenenza. Il genere è perciò una serie di comportamenti appresi.
Il processo di acquisizione dell’identità di genere inizia già prima della nascita e continua lungo il corso della vita di donne e uomini. Infatti appena si scopre il sesso del bebè, si cerca di caratterizzarlo da subito.
L’antropologa Francoise Heritier riprende il lavoro della Mead e arriva a formulare questa tesi: la distinzione tra maschile e femminile è universale e ovunque, in ogni tempo e luogo, il maschile è considerato superiore al femminile. La Heritier parla di “valenza differenziale dei sessi”, nel senso che viene da sempre attribuito un valore diverso a maschi e femmine, a partire dal neolitico.
Perché infatti le donne sono sempre state considerate merce di scambio?
Probabilmente si è arrivati a una tale considerazione della donna a partire da una semplice constatazione: dopo la copulazione, la donna può generare sia corpi maschili che femminili. Qual è dunque l’apporto del maschile?
Si arrivò a capire che l’uomo trasmetteva il seme: il corpo della donna era dunque un luogo messo a disposizione dell’uomo perché lui potesse riprodurre un proprio identico. Il corpo della donna iniziò dunque ad essere ridotto a semplice contenitore, proprietà ad uso degli uomini, mero oggetto di scambio.
Gli uomini cominciarono inoltre a capire che per procreare bisognava passare attraverso il corpo della donna, e che dunque bisognava appropriarsene. Dunque venne istituito il matrimonio, per regolamentare le unioni con le donne, considerati semplici oggetti di proprietà.
La donna venne quindi totalmente spersonalizzata, le si impedì di scegliere il marito e come e quanti figli avere, le venne reso impossibile di accedere al sapere, di lavorare. La violenza dunque non era solo fisica (l’apice della violenza fisica verrà rappresentata dagli stupri di guerra, dove l’uomo esercita il suo potere attraverso l’uso del corpo della donna), ma anche simbolica, nascosta, mimetizzata: le donne vennero imprigionate dagli stereotipi che vigevano su di loro.
Purtroppo non c’è società senza stereotipi di genere. Perché? Di solito pensiamo in modo dualistico, ed è difficile uscire da questo dualismo. Il dualismo maschile-femminile ha inglobato tutti gli altri (attivo-passivo, rugoso-liscio…). Come superare questi stereotipi?
Le donne dovrebbero cercare di costruire il dominio di un simbolico diverso da quello esclusivamente maschile. Bisogna prima di tutto riconoscere la violenza simbolica maschile, renderla visibile per poi decostruirla.
La Heritier sostiene che l’obiettivo non deve essere il raggiungimento dell’uguaglianza dei sessi, ma il riconoscimento della loro interdipendenza. Bisogna dunque dissolvere la gerarchia a partire da quella all’interno delle menti.
Ringraziamo coloro che hanno tenuto i corsi “Corpo, genere e potere” alla Libera Università del Sapere Critico di Parma.
Eugenia Chetta