Costruire in Amazzonia: città, strade, piazze, allevamenti, coltivazioni, è quel che si prospetta al termine di quest’ultima tragica serie di eventi che ha attirato negli ultimi mesi l’attenzione pubblica, fino a toccare le corde delle discussioni al G7 di Biarritz.
In realtà nulla di nuovo: è qualcosa che la secolare foresta ha già visto succedere. Solo che circa un migliaio di anni fa non si trattò dei sogni anticipati e realizzati del presidente Bolsonaro, né di chiunque altro come lui interessato al solo sfruttamento dell’immensa risorsa: ciò che avvenne in Amazzonia ancora prima dell’arrivo degli europei, fu un esempio di magnifica coesistenza fra l’essere umano e la natura. A dimostrazione che sì, costruire in Amazzonia si può, e soprattutto senza che questo implichi la sua distruzione.
Quel “buon selvaggio” prima dell’arrivo del bianco europeo civilizzatore, l’aveva predetto: costruire in Amazzonia sarebbe stato possibile, già migliaia di anni fa. E le sue città sarebbero state così ben integrate nella foresta da venirne poi “inglobate”, allo scomparire – per ragioni ancora non del tutto definite – di tutte quelle genti. Quasi nulla a oggi, ne è rimasto a testimonianza.
E per questo motivo, l’ipotesi che la foresta amazzonica fosse stata un tempo abitata da civiltà di milioni di individui, è stata a lungo accantonata. E così, è nato il mito di una selva inabitata, incontaminata e vergine: il paradiso dell’Amazzonia, con la sua preziosissima biodiversità, e le sue riserve di ossigeno, e gli sterminati spazi verdi.
Terre bruciate, nell’interesse non solo dell’uomo ma anche della natura
Il primo indizio a mettere in discussione questo idillio dell’Amazzonia vergine, fu la scoperta negli anni ’60, di un’inspiegabile e abbondante presenza della cosiddetta terra preta: la terra scura. Nera, poiché bruciata, arsa – ma non come oggi, per fare spazio a coltivazioni di invasori (la soia non è fra i prodotti “autoctoni” del Sud America) – bensì per smaltire “rifiuti” dell’alimentazione umana, come resti di semi e lische di pesce.
Un caso fortuito quindi, rivelatosi vera e propria risorsa: le popolazioni aborigene si accorsero presto – secondo la tesi di Carolina Levis, del National Institute of Amazonian Research di Manaus, in Brasile – che questo metodo serviva a rendere fertile la terra, così da poterla coltivare. (Oggi sappiamo grazie agli stessi scienziati che le grandi foreste hanno di fatto bisogno di incendi periodici, seppure “autoinflitti”, quindi non innescati dall’uomo, per sopravvivere e rigenerarsi).
Insomma, la terra preta sarebbe frutto di una prolungata attività umana, destinata all’agricoltura oltre che alla produzione di carbone vegetale. Ma questo non è che un primo indizio…
Costruire in Amazzonia in maniera sostenibile, quando coltivazioni e biodiversità erano sinonimi
L’uomo “nutriva” la terra dell’Amazzonia tramite gli incendi di scarti, affinché la terra dell’Amazzonia gli desse in cambio nutrimento. Al contrario di oggi, non si trattava quindi di monocolture di soia e cereali prevalentemente destinati al consumo animale, bensì di un’operata selezione e addomesticazione dei prodotti che quella landa di biodiversità già offriva: in principio fu la manioca (detta anche cassava), che pare fosse già coltivata almeno 7000 anni fa. A distanza di un paio di millenni, l’essere umano identificò e iniziò così a piantare i primi alberi da frutto e il riso. A dimostrarlo sarebbero dei reperti fossili, i quali rivelano che oltre alle coltivazioni (che inclusero in seguito un’altra ottantina di specie fra cui tabacco, ananas, patate dolci e peperoncino… un modello di biodiversità a misura d’uomo), l’altra forma di sostentamento era l’allevamento. Parliamo di pesci, ben trentasette specie in totale, oltre alle tartarughe di acqua dolce, che nuotavano in dighe allestite a zigzag per intrappolarli, come quelle ritrovate a Llanos de Moxos (nel nord della Bolivia).
Le civiltà amazzoniche in questo modo 5000 anni fa, potendosi affidare alla sempre maggior disponibilità di cibo, iniziarono a crescere: raggiungendo il culmine circa un migliaio di anni fa. Sui numeri esatti gli scienziati non concordano: c’è chi stima uno, chi cinque, chi addirittura otto, dieci milioni di abitanti che popolavano l’Amazzonia. Qualcuno arrivò a dire che “prove significative” mostrano che all’inizio del 1500 le società non erano poi così diverse: “il paesaggio indigeno americano era umanizzato come tutti gli altri”.
Anche le città erano “ecosostenibili”
In effetti, qualcosa di diverso forse c’era: Michael Heckenberger, dell’università della Florida a Gainesville, ritiene che gli insediamenti da lui scoperti non ricordano affatto le città tradizionali europee, né le contemporanee civilizzazioni in Grecia e Mesopotamia, bensì erano “città intessute nella foresta”. Altro che “selvaggi”: gli indigeni avevano edificato sorprendenti strutture, reti di strade, piazze – ancora prima che i colonizzatori europei arrivassero a disturbarli (decimarli con le loro malattie). Era un’altra volta la terra stessa dell’Amazzonia però, a permettere tutto questo: principale materiale da costruzione, veniva impiegata anche compressa per costruire strade ampie e dritte che collegavano i villaggi fra di loro.
La terra è comunque un materiale non durevole, rispetto alla pietra o ai metalli: ragion per cui è difficile risalire ai resti di questo passato di coesistenza e prosperità in comune, fra l’essere umano e l’Amazzonia.
Costruire in Amazzonia, oggi
Immaginiamo le differenze, fra le società che popolavano e “sfruttavano” la foresta amazzonica un tempo e quelle odierne. Quella che si può definire una “biodiversità coltivata”, e improntata alle crescite spontanee del luogo, contro immensi campi di monocolture di prodotti importati. Forme di agricoltura e allevamento destinate all’autosostentamento di popolazioni che comunque, raggiungevano mettiamo anche solo cinque milioni di individui, contro una produzione destinata principalmente all’export e ai mangimi animali. Città integrate nella foresta a tal punto da venirne “ri-assorbite” nel suo grembo, contro una deliberata appropriazione dei territori dell’Amazzonia che prevede la sua rasa al suolo.
Ovviamente, sarebbe un’impraticabile e inutile utopia tornare al modello di allora. Ma che questa storia possa servire da lezione, da esempio, su come uno sviluppo sostenibile – tale a quello delle popolazioni indigene – sia durato migliaia di anni, mentre quello che sta venendo messo in atto adesso è evidentemente destinato a esaurire in breve le risorse, e con le stesse, estinguersi anch’esso.
Alice Tarditi