– di Randa Ghazy –
Hatay è una delle province più colpite dai terremoti che si sono abbattuti sulla Turchia meridionale il 6 Febbraio 2023. Il 95% delle infrastrutture è stato completamente distrutto, e le condizioni atmosferiche, la neve in particolare, hanno reso complicati sia l’accesso alle città che la distribuzione di aiuti. Oggi la città di Antiochia è quasi diventata una città fantasma. La maggior parte dei sopravvissuti, una volta recuperati i corpi dei propri cari, si è trasferita in villaggi adiacenti o in altre città dove il governo turco ha assegnato loro una sistemazione. La posizione di Antiochia, così vicina al confine con la Siria, la rende anche una delle città turche con la più alta concentrazione di rifugiati siriani, che ora si trovano ad affrontare dolore e trauma aggiuntivi alla fuga dalla guerra civile siriana, oltre all’ostilità di parte della popolazione locale.
Mert avrà poco più di vent’anni. Alto, occhi e capelli scuri, le guance un po’ arrossate che lo fanno sembrare ancora più giovane e innocente.
Al banchetto per ricaricare i cellulari, in mezzo ai cavi attorcigliati, alle ciabatte elettriche e ai guanti spaiati o altri oggetti dimenticati da chi è passato di lì, emana un’energia rilassante che stona con il caos intorno a lui.
Da questo centro di coordinamento e distribuzione di beni di prima necessità nel centro di Antiochia passano tutti: i volontari, i soldati, l’AFAD, gli operatori umanitari, le famiglie ancora rimaste in città. Il primo giorno, un bambino di sette anni si era perso e per qualche minuto tutti urlavano il suo nome, il panico nella voce dei familiari. Dopo tre o quattro minuti, trovato il bambino e rientrata l’emergenza, ognuno ha ricominciato a correre a destra e a sinistra, distribuendo medicine, pasti caldi, montando tende, scaricando coperte e materassi dai furgoni.
Il mio cellulare è finalmente carico, Mert me lo passa sorridendo e chiedendomi se sto bene. Gli rigiro la domanda, e gli chiedo se è di Hatay. Sì, abitava proprio qui in Antiochia, in una delle province più danneggiate dai terremoti, e anche se è riuscito a mettersi in salvo con la sua famiglia ed evacuare in un’altra città, ha deciso di tornare indietro.
“Non me la sentivo di stare lontano. Il mio posto è qui, ad aiutare.”
Ci sono dieci, cento, mille Mert qui a Hatay. I volontari hanno dato tutto: scavato con vanghe e mezzi inadeguati in mezzo alle macerie, distribuito tende e coperte alle comunità delle zone rurali, lottato contro il tempo per offrire rifugio e un pasto caldo alle migliaia di famiglie rimaste senza casa.
Saranno stati scritti fiumi di inchiostro sulle lacune del governo turco, sulle sanzioni contro il regime siriano che complicano l’assistenza umanitaria nelle zone colpite della Siria, ma forse non abbastanza su quelli che sono rimasti, o meglio, che ci sono stati dal primo giorno.
Edificio dopo edificio, vediamo distruzione inimmaginabile, crepe che dividono la strada in due, a volte si vedono piantine, libri di scuola, dettagli tra le macerie che raccontano vite che non ci sono più. Spesso, si vedono persone dallo sguardo triste ma determinato, sedute su poltrone polverose accanto alle macerie. Sono i familiari che non si arrendono. Ahmed, un uomo sui sessant’anni dai folti baffi bianchi mi dice: “Mio fratello è ancora lì sotto. L’ho detto a tutti, ho chiesto aiuto, abbiamo anche sentito dei rumori una notte. Ma niente, non mi hanno ascoltato, non lo abbiamo trovato.” Gli chiedo fino a quanto intende restare. “Fino a quanto ci vorrà per riaverlo con me. Non importa quanto.”
Il dolore e il lutto dei rifugiati siriani come Ahmed, che hanno già vissuto il trauma della guerra e dello sfollamento di città in città fino ad arrivare qui nel sud della Turchia, va pari pari con il loro senso di impotenza, la sensazione di non essere voluti qua, e che i propri morti o dispersi valgano in qualche modo meno degli altri.
Sono i più vulnerabili, così come lo sono i bambini che hanno perso tutto. In un centro di accoglienza Mehmet, tre anni appena, mi viene incontro, mi parla in turco e fa mille domande. Chiedo alla mia collega di tradurre per me.
“Chiede se anche da dove vieni tu c’è stato un terremoto. Dice che è saltato giù dalla finestra con sua mamma per salvarsi.”
Le organizzazioni umanitarie sono preoccupate per il trauma psicologico subito dai bambini sopravvissuti, ma anche per la loro salute: a causa delle infrastrutture completamente distrutte, ad Antiochia non ci sono elettricità, acqua, servizio igienico-sanitari. Le condizioni igieniche sono gravissime, si vedono feci per strada, si sente il puzzo dei corpi estratti dalle macerie.
Senza accesso ad acqua pulita e servizi sanitari, il rischio di malattie trasmesse dall’acqua e altri vettori è alto, e organizzazioni umanitarie come Save the Children hanno alzato l’allarme: i bambini sono i più vulnerabili a malattie come il colera, la dissenteria, e molti ospedali e strutture sanitarie sono anch’esse danneggiate dai terremoti oppure sovraffollate. Come potrebbe la Turchia, in questo disastro umanitario, fare fronte anche ad un’emergenza sanitaria pubblica?
E guardando un po’ più in là: quanto ci vorrà perché i bambini tornino a scuola, e saranno soprattutto i rifugiati siriani e le famiglie turche più povere a rimetterci, perdendo la possibilità di un futuro dignitoso?
E cosa accadrà alle comunità rurali di Hatay, la cui popolazione è raddoppiata, se non triplicata improvvisamente, dopo che i sopravvissuti hanno lasciato le città distrutte dai terremoti e si sono rifugiati nelle campagne? Il sovraffollamento, la mancanza di tende, il freddo gelido, la paura ad ogni scossa di assestamento.
Ci vorranno mesi prima di sapere il bilancio complessivo delle vittime, a Hatay dicono che prima che tutti i corpi vengano estratti dalle macerie dovremo aspettare forse due, tre mesi. Nel frattempo, la comunità internazionale dovrà fare il possibile perché i sopravvissuti continuino a sopravvivere, garantire la loro salute, sicurezza, la loro dignità.
Tornando alla nostra base dopo una lunga giornata, avvisto ancora Ahmed, accanto a lui un’ambulanza, e un team di soccorso impegnato in un’operazione di estrazione. Scendo dalla macchina, corro verso di lui con improvvisa energia.
Mi guarda, scuote la testa.
“Hanno trovato mio fratello. Non ce l’ha fatta. Ora me ne posso andare. Non c’è più niente qui, per me.”
Guardiamo in silenzio mentre i soccorritori portano un telo, lentamente creano un passaggio sicuro, e portano via il suo corpo.
Solo pochi minuti prima, per strada, vicino alle macerie di un altro edificio, c’eravamo zittiti tutti, le macchine ferme in mezzo alla strada, un silenzio tombale. I soccorritori credevano di aver sentito una voce. Hanno urlato “C’è qualcuno che ci sente?” all’unisono. Quattro, cinque volte. Tutti immobili, speranzosi per un istante.
Ma il silenzio che è seguito ha troncato ogni speranza.
I volontari sul ciglio della strada hanno abbassato la testa, con un moto di sconfitta, fatto cenno alle macchine di passare. La vita intorno, seppur mesta, è ricominciata.
Ci siamo allontanati, lo sguardo fisso nel vuoto.