Cosa Nostra e Caravaggio, una storia semplice?

Cosa Nostra e Caravaggio

Di semplice, quando si tratta di districarsi tra i fili intrecciati della mafia siciliana, non c’è nulla. Questo lo sapeva benissimo Leonardo Sciascia, quando decise di titolare sardonicamente Una storia semplice il suo ultimo giallo, ispirandosi liberamente alla vicenda giudiziaria che lega  Cosa Nostra e Caravaggio.

Era la notte racchiusa tra il 17 e il 18 ottobre del 1969 quando dall’Oratorio di San Lorenzo, intinto nel dedalo delle viuzze intimamente arabeggianti della Kelsa, a Palermo, viene trafugata la Natività di Caravaggio.

Cosa nostra e Caravaggio, quando la mafia si appassiona all’arte

Supposizioni, accuse, inchieste, indagini perpetrate da uomini d’oltremare, l’aggrovigliato caso del furto della Natività, dopo oltre cinquant’anni, non ha ancora un colpevole. Altrettanto intricate appaiono le sorti spettate alla tela, che sembrano intersecare in maniera indissolubile Cosa Nostra e Caravaggio. Questa venne prima dichiarata distrutta, poi rinsavita, dopo ancora emigrata oltralpe. Quello che è certo è che si tratta di un capolavoro di inestimabile valore.

È il 1600 quando in un fibrillante clima baroccheggiante, un facoltoso mercante senese commissiona a un giovanissimo Caravaggio un quadro cum figuris 12×7/8 palmi. L’allora ventinovenne Caravaggio, nome de plume di Michelangelo Merisi, all’epoca sostava nel fermento artistico di Roma. Ed è proprio tra la magnificenza dei fori che tinteggia la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi. L’opera viene poi trasportata dal suo committente a Palermo e collocata sulla tavola liturgica dell’Oratorio di San Lorenzo. Lì riposerà per 369 anni, finché qualcuno non decide di appropriarsene illecitamente. La mafia? Non siamo certi che il mandante venne incaricato direttamente da Cosa Nostra. Dalla ricostruzione degli inquirenti emerge, però, un’interferenza indiretta dell’organizzazione criminale, postuma alla sparizione della tela.

Cosa nostra e Caravaggio, la vicenda a cui si ispirò anche Sciascia

Pioveva abbondantemente quella sera a Palermo. Scendeva una pioggia tiepida e avvolgente, presagio di quelle estati del sud che paiono eterne. Eppure, la bella stagione era terminata da un pezzo e l’acqua, insieme agli strascichi di cieli gemmei e carezze arroventate consumate alla controra, lavò via anche colpe impagate. Sembrerebbe quasi l’incipit di uno dei tanti romanzi gialli ambientati nella dolorosa Sicilia ma spesso, come ci insegna la gemma di pirandelliana memoria, “la realtà supera di gran lunga la fantasia”. Dal padre letterario, Leonardo Sciascia eredita lo sguardo lucido di chi, superando il misticismo eroico fin troppo spesso appoggiato sulla Sicilia, osserva, vede e denuncia la terra riarsa, meschina, tigliosa. L’entroterra, quello ricolmo di zolfo e di corpi sventrati, dimenticati.

Sciascia, servendosi della sua paradigmatica prerogativa di impastare il quotidiano con l’arcano, scrive il suo ultimo racconto poliziesco direttamente a macchina nel 1989. Cinquanta pagine di colpi di scena già svelati ancor prima di intrigare, concentrati in un taccuino da tenere in tasca, memorandum di una Sicilia senza più abiti, denudata. L’esergo de Una storia semplice, frastornato da telefoni che squillano e luci accese, vede il ritorno del diplomatico Roccella alla natia Monterosso, sui monti Iblei. Il pretesto è quello di recuperare alcune preziose corrispondenze scambiate tra il bisnonno, Garibaldi e Pirandello. Quello che l’uomo scopre in soffitta è, però, ancor più sbalorditivo: una tela rubata. Il quadro protagonista del romanzo, per i più, rappresenterebbe proprio la Natività del Caravaggio rubata a Palermo. Furto al quale lo scrittore di Racalmuto si ispirò per stendere il suo ultimo capolavoro.

Una storia affatto semplice

Dal postremo frutto letterario di Sciascia prende il nome l’ultimo capitolo del report stilato dalla Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi nel 2018. Come per Sciascia, anche la squadra d’inchiesta pare avere sotto agli occhi la soluzione del rebus, senza però mai riuscire a trovare appianamento al rompicapo. Tanto che oggi, a cinquantaquattro anni dal furto, nessuno ha pagato il conto. Quel che si sa è che furono due uomini incappucciati a trafugare la preziosa tela e a sparire, poi, nell’etere dei misteri irrisolti italiani.

Quando la mattina di quel 18 ottobre le custodi dell’oratorio si resero conto dell’assenza del dipinto, strappato rozzamente dalla sua culla con l’aiuto di un taglierino, era ormai troppo tardi. Le indagini che si sono susseguite da allora non hanno, di fatto, portato ad alcunché di concreto. Nonostante l’FBI abbia inserito la sparizione sul podio della Top Ten Crimes, la classifica dei dieci furti d’arte più celebri del mondo.

“Quattro o cinque milioni” in cambio della tela

L’unica cosa che, mezzo secolo più tardi, pare assodata è l’ingerenza postuma della mafia siciliana. Il deus ex machina dell’incognita, neanche a dirlo, un pentito. Gaetano Grado, all’epoca investito del compito di mantenere l’ordine tra le strade di Palermo dal capo mandamento Stefano Bontante, confessa di fronte alla commissione antimafia l’epilogo dei fatti.



Grado dichiara di essere stato avvicinato da Badalamenti in persona poche ore dopo la notizia del furto. Zu Tanu, nome d’arte del boss, chiede a Grado di offrire “quattro o cinque milioni” ai poveri disgraziati artefici dell’illecito. La tela finisce così definitivamente nel braccio della criminalità. L’epilogo perfetto di una “Storia semplice”, no?

I passamani del dipinto e le mille versioni

Ebbene no. Quella che si sarebbe potuta risolvere agevolmente come un altro episodio della pellicola sulla mafia siciliana, si è trasformata in un’altra puntata dell’insoluto Made in Italy. Pare, infatti, che l’andirivieni della tela abbia seguito le nomine degli “uomini d’onore”. Tante le riscritture paventate. Scendiletto di Totò Riina, vessillo esposto nelle adunanze di Cosa Nostra, mangiato dai topi o distrutto nel terremoto dell’Irpinia.

Tutte le versioni sembrano, però, cozzare con quella di Mannoia, testimone d’eccellenza perché coinvolto direttamente nel furto. Durante il primo interrogatorio, di fronte al giudice Falcone, Mannoia dichiara che la tela si danneggiò quella notte stessa a causa della pioggia e lui stesso la diede alla fiamme. Trasposizione poi sconfessata anni dopo dallo stesso dinnanzi la Commissione Antimafia.

La strada svizzera

Nel report del 2018, la traccia che pare più verosimile vuole “U Caravaggiu” emigrato oltralpe. Ritorna a far luce sulla questione Grado, ammettendo uno scambio commerciale tra Badalamenti e un ricco mercante d’arte svizzero. Secondo le dichiarazioni del pentito, a fronte di un ingente somma di denaro, l’affarista avrebbe convinto Badalamenti a sezionare in 6 o 8 parti la tela. In questo modo sarebbe stato più facile piazzarla sul mercato clandestino delle opere d’arte. Si perdono così definitivamente le tracce dell’inestimabile monumento artistico italiano, buscatosi un posto d’onore tra i superlatitanti di fama mondiale.

Martina Falvo

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