Cosa chiamiamo “casa”. Una difesa al diritto di migrare.

Diritto di migrare: cosa è casa

Una questione di corrispondenze

Quando ho lasciato la mia città natale per la prima volta avevo 18 anni.
A 18 anni, per la prima volta, ho esercitato il mio diritto di migrare.
A 18 anni, per la prima volta, stavo scoprendo che esisteva la possibilità di poter chiamare “casa” una città diversa da quella in cui ero nata e cresciuta, quell’unica che conoscevo, e in cui avevo sempre abitato.
Seppur lontana dalla mia famiglia e dai miei amici di sempre stavo scoprendo che, quella di spostarmi, era una possibilità reale e che, forse, la scelta di stabilirmi altrove mi sarebbe potuta appartenere più di quando non avessi mai immaginato, fino a quel momento.

Da quella mia “prima volta” ho iniziato ad interrogarmi spesso: ma cosa è, davvero, “casa”?
E, da quella mia “prima volta”, la risposta che finisco per darmi sempre è che, per quanto la questione si trascini dietro delle sfumature necessariamente soggettive, se dei caratteri universalmente condivisibili esistono, questi, devono avere certamente a che fare con le corrispondenze.

Le corrispondenze non sono mai scontate. Corrispondere significa “vibrare con”, significa stabilire un accordo tra le parti così intrinsecamente profondo che, come in una sinfonia, se una di queste stona, inevitabilmente, striderà anche l’altra.

“Corrispondere” significa “coincidere”, significa “equivalersi nello spazio e nel tempo”, significa appartenersi senza ammissione di logiche razionali.
Definire “cosa è casa” è definire cosa ci fa sentire accoltə, è cercare un senso di appartenenza, è stabilire delle relazioni in uno spazio che riteniamo rispecchiarci, è sentirsi padronə delle dimensioni che abitiamo e del suolo dove camminiamo, è sentire certi luoghi più “nostri” di altri.

Il proprio posto nel mondo

Il fenomeno dei movimenti migratori è da sempre stato, è e sempre sarà, una fattualità oggettiva che riguarda moltə. Oltre a chi, per necessità è costrettə ad emigrare dal proprio Paese per motivi di sopravvivenza, se stiliamo una rapida valutazione del più fortunato panorama italiano, possiamo notare come in realtà il numero di chi si allontana per scelta dal proprio Paese risulta sempre più alto.

Se consideriamo i dati forniti dalla sintesi dell’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) del 2023, possiamo vedere infatti come i movimenti migratori degli italiani verso un Paese straniero abbiano raggiunto, ad oggi, una media che sfiora quasi i 6 milioni, registrando dal 2006 un incremento del 91%.

Spintə forse dalla ricerca di un senso di maggior “compimento”, di una maggiore libertà, spintə dalla ricerca di un proprio posto nel mondo, il livello di chi per scelta espatria dal Paese per ricostituirsi una vita altrove è quindi decisamente notevole. Stando allo stesso rapporto dell’AIRE comprendiamo infatti come:

«Il diritto di migrare e il diritto di restare nella propria terra camminano insieme nella storia contemporanea. Si tratta, in entrambi i casi, di diritti legati alla libertà, il valore per eccellenza, quello per il quale gli uomini lottano da sempre, quello per cui ancora ci si ritrova oggi in un mondo senza pace, ma ricco di conflitti armati. Una libertà che è sempre più individuale e che si conquista con la forza lasciandone l’altro privo. La libertà che non dovrebbe mai mancare in nessun individuo, ma che sembra invece mancare sempre di più e con sempre più facilità in modo improvviso».

(Rapporto Italiani nel Mondo 2023)

Il diritto di migrare e il diritto di restare

Al di là delle motivazioni specifiche che stanno alla base di questi allontanamenti (non sempre totalmente desiderati, ma indubbiamente comunque ricercati), non possiamo tuttavia non considerare che questo tipo di scelta, sia che sia obbligata, sia che sia deliberata, si porta spesso dietro un altro importante aspetto che, troppo poco spesso e con troppo poco scrupolo, viene considerato.

Rimettere infatti in discussione i propri caratteri identitari all’interno di una cultura diversa e ritrovarsi di punto in bianco a doversi ricostruire delle abitudini all’interno di una comunità nuova (rischiando oltretutto che questa possa comunque non corrisponderci), non è certo facile.

Acquisire la capacità di adattarsi per poter arrivare chiamare “casa” uno spazio che ci è inizialmente, per forza di cose, estraneo, o, al contrario, ritornare nel proprio paese d’origine dopo aver fatto esperienze altrove, non sono sicuramente processi immediati.

«Il diritto di restare, il diritto di migrare, il diritto di ritornare sono tre facce dello stesso dilemma esistenziale provato dal migrante. Il ritorno presuppone un territorio e una comunità che siano rimaste ad aspettare, che ti riconoscano e che ti valorizzino nel cambiamento che la migrazione ha necessariamente prodotto nella persona migrante, nel suo status (di persona, lavoratore, genitore, membro di una coppia e di una comunità) e nei suoi ruoli. Fare della migrazione un diritto davvero libero è il compito che ci attende come persone».

(Rapporto Italiani nel Mondo 2023)

La casa come spazio del sè

Porsi la questione del diritto di migrare, studiare delle modalità di accoglienza che possano permettere di facilitare il più possibile i processi di integrazione dello straniero per riflettere poi a fondo sull’efficacia di questi, dovrebbe diventare un’esigenza sempre più primaria e costitutiva.
Cercare di considerare l’Altro un po’ meno come un peso ed iniziare a considerarlo piuttosto un po’ più come una risorsa sarebbe probabilmente il primo vero passo in avanti da fare per un’evoluzione comunitaria degna di essere definita tale, perché in fondo:

«Solo chi interroga se stesso in un dialogo silenzioso tra Io e Io può incontrare il Tu, cioè l’Altro, al fine di creare non una gerarchia, ma “un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno”. Condividere un tavolo pur avendo convinzioni profondamente diverse richiede una disposizione tutt’altro che totalitaria. Lo spazio politico richiede che tutti i cittadini si mettano in gioco, anche quando non sono rappresentanti. […] Occorre immaginare nuovi modelli di convivenza con l’idea che non saranno mai definitivi e salvifici ma sempre dei tentativi, delle teorie, delle pratiche più o meno adatte a favorire la libertà di esercizio della meraviglia di ciascuno. Isolandoci, oggi rischiamo di chiuderci e di sottrarci la ricchezza della meraviglia dell’Altro. La meraviglia, forse, è come la felicità: è vera solo se condivisa».

(Andrea Colamedici e Maura Gancitano, Lezioni di meraviglia)

Il fenomeno delle migrazioni si trascina allora dietro una materia estremamente preziosa.
Preservare il diritto di migrare e attribuire a questo il giusto valore e la giusta attenzione, significa preservare la possibilità di meravigliarsi, di scoprirsi liberə, di rivelarsi prima e, per primə, a noi stessə.
Sviluppare delle buone politiche di integrazione vuol dire darsi la possibilità, di poter chiamare “casa” lo spazio che scegliamo di abitare e di poter concordare con questo, significa permettersi di poterci scoprire, di poterci trovare o ri-trovare, di poterci finanche identificare al meglio e senza inibizioni, in quelle che sono le nostre reali corrispondenze.

 

Giulia Guastalegname

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