Questa settimana è stata carica di impegno: il 23 maggio è avvenuta la commemorazione della Strage di Capaci. Ma per quanto si celebri la memoria, ricordare non è un atto facile a farsi.
Il 23 maggio a Palermo c’è sempre una tensione particolare. Da tutta Italia scendono giovanissimi e adulti per partecipare alle varie attività proposte per la commemorazione e al corteo.
Il percorso, che dall’Aula Bunker arriva fino all’Albero di Falcone, si conclude alle 18:00, ora in cui, venticinque anni fa, avvenne la Strage in autostrada.
Partecipano tutti, soprattutto studenti di tutte le scuole provenienti da diverse parti della Sicilia e dell’Italia intera. Tra queste non mancano anche le scuole palermitane.
Le scuole di Palermo che aderiscono, attuano una preparazione di almeno una o due settimane prima. I collettivi scolastici che gestiscono sempre le attività extra-scolastiche, rivolte soprattutto al sociale, diventano un punto di riferimento.
Ci sono studenti che ogni anno si preparano a quel giorno grazie a incontri e riunioni in cui si discute e si propongono idee per il corteo.
Sembra un atto banale, quasi dovuto, e invece c’è un vero e proprio studio; un’atmosfera di dibattito e di creazione giovanile che si concretizza nel percorso che i loro piedi compiono nell’attraversare tutto il corteo.
I ragazzi che si impegnano alla partecipazione attiva studiano e studiando prendono coscienza del giorno a cui vanno incontro. Ogni cosa è simbolo, in quella giornata, tuttavia un simbolo concreto, un gesto per non dimenticare.
Ma la memoria corta piace alle istituzioni; piace alla polizia; piace a chi partecipa a queste giornate per fare una sfilata di ipocrisia e non perché ci crede – crederci è l’ultima cosa che ci rimane –.
Il 23 maggio 2017 al corteo partecipavano in moltissimi; tra questi due scuole di Palermo: il liceo scientifico Cannizzaro e il classico Garibaldi, con i loro collettivi corrispondenti.
In quel giorno della memoria, qualcuno ha palesemente dimenticato, indispettendosi per due lenzuola con su parole come macigni, piene di provocazione e di dissenso.
Lenzuola che erano anch’esse simbolo, ma tangibile; un lavoro semplice ma sentito di giovani ragazzi partecipanti.
Il Corteo Siamo Noi, La Passerella Siete Voi
collettivo Cannizzaro
Non Siete Stato Voi, Ma Siete Stati Voi
collettivo Garibaldi
Queste le parole scritte su due lenzuola che camminavano accanto. C’erano le due scuole, con i loro ragazzi e la preside, che quest’anno è la stessa per entrambi gli istituti.
A osservare bene tutti gli altri striscioni, questi due sembrano essere i più “duri“, di condanna. Perciò, perfettamente coerenti al contesto.
Cosa c’è di sbagliato in quelle parole? Forse questi ragazzi non dovevano sottolineare il legame tra lo Stato e la mafia? Forse non dovevano porre l’accento sull’ipocrisia di certe istituzioni che si riempiono la bocca di retorica e poi chiudono i megafoni e ritornano alle poltrone?
Forse non dovevano essere così discordanti con il resto del corteo, composto da bambini trascinanti striscioni infantili – e deliziosi -, con diciture tipo “la mafia spegne il sole, noi lo riaccendiamo”, e maestre saltellanti?
Forse. Ma allora quei ragazzi non dovevano studiare. Non dovevano pensare. Non dovevano partecipare. Non dovevano crederci.
Per fortuna nostra, l’hanno fatto. La polizia è intervenuta, sequestrando loro gli striscioni. Giorno 24 maggio, lo striscione del Cannizzaro è ritornato alla suo scuola di appartenenza.
Gabriele Rizzo, rappresentante del collettivo Cannizzaro, ha raccontato come sono andati i fatti: prima del momento massimo di agitazione, ovvero quando la Digos, con forza, ha sequestrato gli striscioni, due uomini in borghese si erano avvicinati.
Non si sono presentati, nonostante sia la preside sia i ragazzi in prima fila, reggenti gli striscioni, avessero chiesto loro chi fossero. Hanno liquidato la domanda dicendo solo che erano “rappresentanti delle Istituzioni”.
Gli agenti, in seguito, hanno inseguito e accerchiato il ragazzo che nel frattempo si era allontanato dalla “zuffa” per riavvicinarsi al corteo. Gli hanno intimato di lasciargli lo striscione e di “finirla”.
Queste sono le Istituzioni che dovrebbero essere il nostro punto di riferimento. Grazie, come se avessimo accettato.
Quante volte ancora dobbiamo vedere morire Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e chi come loro credeva in quello che faceva fino ad essere abbandonato, nella solitudine?
C’erano solo due modi per partecipare a quella giornata, da parte di tutti: camminare ed esprimere un pensiero, attraverso qualcosa, fosse anche un lenzuolo.
In quella giornata persino i lenzuoli bianchi raccontano una storia di resistenza; non devono farlo quelli con su delle scritte significative?
Solo due modi, sì, e uno di questi è stato offeso da chi non dovrebbe offendere. Da chi, forse, dovrebbe imparare.
È comodo promuovere l’immagine del giovane black block stile Expomafia il quale per poco non sa mettere due parole di seguito, che non siano “minchia zio” e “il sistema va sconfitto”, però questa non è la realtà.
La realtà è composta da giovani che ci credono, che studiano, che si organizzano. Proprio così, come ai vecchi tempi del fervore sessantottino e del quale queste giovani generazioni sono solo eredi inconsapevoli.
Chi cammina pacificamente mostrando dissenso e presenza aderisce quanto più coerentemente è possibile fare con la figura di Giovanni Falcone.
Questo, la polizia, lo sa? Quei due mafiosi “rappresentanti delle istituzioni”, lo sanno?
Chi sta sul palchetto montato ad hoc, scenda; chi scatta due foto alla passerella, la smetta e inizi il corteo. È lì che le loro idee camminano sulle gambe di chi prosegue, non davanti ai microfoni.
Possiamo piangere di meno in mondovisione e crederci di più?
Gea Di Bella