L’autolesionismo è la tendenza ad infliggersi dolore fisico in vari modi, per sopperire o allontanare dolore emotivo o fugarlo in altre direzioni. Di certo una domanda che sta molto a cuore è: come si può cacciare via il dolore procurandosene altro? Come può qualcuno decidere di flagellarsi coscientemente? Lo chiesi a Johnny. È questo lo pseudonimo che questo ragazzo di 18 anni ha deciso di volere usare. È timido, si vergogna di dare il suo nome per quest’intervista, conscio forse che parlare più liberamente significherebbe proprio mostrare quelle cicatrici che nasconde sotto la maglia.
Ho incontrato Johnny in un centro di ascolto, si distingue da tutti gli altri per una minutezza caratteriale impressionante, quasi viene da chiedergli se stia per svenire. Ma lui mi assicura che è calmo, è proprio fatto così lui. Cerco di metterlo più a suo agio e penso a qualche domande che possa rompere il ghiaccio, poi esordisco con la più ovvia che si possa fare:
-Quando ti sei tagliato la prima volta?
-Johnny: avevo credo quindici o sedici anni. Ero estremamente triste, se non addirittura depresso. Mi ricordo che i pensieri che facevo mi causavano una forte ansia, e riguardavano gli ambiti più diversi, ma più o meno tutti gli aspetti della mia vita. Io non mi ero mai tagliato, anzi lo consideravo stupido, poi capitò come con le sigarette, presi una lametta in mano e la passai proprio sotto il gomito.
-Dopo come ti sei sentito?
-Johnny: sinceramente non so risponderti, ma era come se parte di quel peso che avevo prima se ne fosse andato. Dopo esisteva solo il sangue che scorreva dalla ferita, come se si fosse canalizzato tutto lì, e tutto stesse passando.
-Quindi tagliarsi diventa catartico, uno si taglia e si sente meglio?
-Johnny: non proprio, ma è come quelle palline anti-stress che strizzandole ti calmi. È in questo modo che la si può vedere, e dopo ci si sente meglio perché ti sei sfogato.
-Quindi diresti che tagliarsi è l’autolesionismo è un modo salutare per curare l’ansia?
Johnny: no, assolutamente no. Se lo fosse io non dovrei venire al centro. Ma tagliarsi è il modo che hanno in molti quando non hanno la forza di parlare o condividere il proprio malessere. Quando non ci si sente capiti da molto tempo, allora si cerca un modo per sfogarsi e tagliarsi è stato il mio modo, come lo è per molti altri.
Mentre risponde alle domande che gli ho appena posto appare titubante, come se chiedesse di immedesimarsi in lui per giustificare le sue risposte, eppure rimane molto lucido, non è di certo timido a parlare dell’argomento una volta preso piede.
–Per quanto tempo hai continuato a tagliarti?
Johnny: circa un anno e mezzo.
-Cosa facevi al tuo corpo, cioè che tipo di lesioni ti procuravi?
Johnny: spesso usavo una lametta per rasoi che trovai a casa di mio nonno. Mi tagliavo sulle braccia, sulle gambe e sulle spalle, a volte prendevo delle cicche di sigarette e le spegnevo sopra le dita, ma la maggior parte di quello che ho fatto è stato con una lametta.
-Hai cicatrici più evidenti di altre?
Johnny: Ho tre cicatrici sulla coscia sinistra, quattro sulla spalla destra e altre più piccole lungo le braccia.
-Hai parlato in maniera estremamente lucida del perché tu ti tagliassi, viene logico chiedersi allora perché tu abbia smesso.
-Johnny: Ho smesso di tagliarmi perché mi sono reso conto che alla fine non era una vera soluzione, si potrebbe dire che non è neanche qualcosa a cui bisognerebbe pensare ma ciò che io mi sento dire è che non è una soluzione.
-I tuoi genitori hanno scoperto ciò che ti facevi?
-Johnny: si, una volta mia madre vide una macchia di sangue su di una mia maglietta sporca e poi vide la cicatrice sul mio braccio, proprio in quel punto. Non riuscii a trovare una scusa e dissi tutto. Loro mi convinsero a venire al centro.
-Da quando vieni al centro senti più il bisogno di farti del male?
-Johnny: no, qui siamo tutti un po’ come degli sconosciuti, se ci incontriamo per strada siamo capaci anche di non salutarci ma so che qui però siamo tutti come una famiglia. Nessuno giudica nessuno e siamo disposti ad ascoltare i problemi degli altri. I psicologi che ci seguono ci danno una grande mano. È questo quelle che serve, qualcuno che ti si sieda accanto e ti chieda come stai, senza darti consigli stupidi o che aspetta di poter parlare lui.
-Cosa ti senti di dire per chiudere questa piccola intervista?
-Johnny: voglio dire ai ragazzi e alle ragazze che come me si fanno del male in quel modo, che non sono soli e che quella non è la soluzione. Le cose passeranno anche senza farsi male e che basta fare un passo indietro prima di fare un gesto del genere, perché molto spesso fa più male a chi ci vuole bene che a noi stessi.
In effetti c’è da dire, per stessa ammissione di Johnny che sente sempre più parlare tra i suoi amici e coetanei di tali gesti. E non si tratta di semplici richieste di attenzioni o virali mode dovute all’influenza mediatica. Dal 2016 i casi di autolesionismo, i tentati suicidi e i ragazzi in cura per tali atti sono in aumento. Il distacco pertanto tra coloro che compiono tali gesti e la realtà sembra sempre più grande. Anche il momento del reinserimento alla fine della cura per molti risulta molo pesante. Cosa bisogna fare? Tenere l’acqua in bocca? Lasciare che la vergogna e la considerazione di debolezza mentale che accompagna chi si fa del male prenda sempre più agio? A voi la ricerca della risposta.