Il temporaneo trasferimento delle spoglie di San Pio da Pietralcina e di San Leopoldo Mandic a Roma, avvenuto nel febbraio scorso nell’ambito delle celebrazioni per il Giubileo della Misericordia, se de un lato ha attirato un numero significativo fedeli nella Città Eterna, dall’altro ha riaperto il dibattito sul culto delle reliquie, che sembra essere sempre più lontano dalla sensibilità odierna. Non pochi, persino tra gli stessi cattolici, hanno bollato la venerazione dei corpi come una superstizione “medievale”, una pratica macabra legata ad una concezione fortemente materialistica della religione, inconciliabile con una spiritualità matura. Tale giudizio liquidatorio, sicuramente influenzato dalla secolare critica protestante e illuminista, non rende tuttavia giustizia al ruolo decisivo svolto dalla venerazione del corpo dei santi nella storia della cristianità. Proprio al fine di recuperare tale importanza storica, mi sembra utile esporre anche a beneficio dei non specialisti i punti più significativi del seminario tenuto lo scorso 16 maggio all’Università di Roma “La Sapienza”, nell’ambito del Dottorato di ricerca in Storia, Antropologia e Religioni, dal prof. Umberto Longo, uno dei massimi esperti della santità medievale nel panorama accademico italiano.
Fin dal titolo del seminario – Il corpo come strumento di santità – il prof. Longo ha evidenziato l’assoluta centralità del corpo nella costruzione della santità cristiana: il dato corporeo è infatti la realtà fisica in cui si inscrive il percorso spirituale del santo. Fondamentale è infatti la capacità del santo di operare dei miracoli per mezzo del proprio corpo, prova suprema della perfezione di vita dell’individuo cristiano. E’ importante ricordare, a tale riguardo, che nell’ottica cristiana è sempre e soltanto la divinità a compiere il miracolo: il santo cristiano, il vir Dei (“uomo di Dio”), è pertanto un tramite, che riceve una speciale virtus (“forza”) taumaturgica per la sua straordinaria condotta di vita. Ancora oggi il riconoscimento della santità, appannaggio della Congregazione delle cause dei santi, passa attraverso l’accertamento di due almeno miracoli, uno in vita e uno dopo la morte, affidato ad apposite commissioni scientifiche costituite da medici, biologi e fisici.
Il santo cristiano si distingue inoltre per la straordinaria capacità di controllare il proprio corpo. Se nei primi secoli della cristianità, segnati da periodiche persecuzioni ad opera dell’autorità romana, il modello di santità cristiana per eccellenza era il martire, cioè colui che testimoniava la propria fede con l’effusione del proprio sangue, in seguito al riconoscimento ufficiale del cristianesimo come religione lecita sotto l’imperatore Costantino (306-337) si affermò un nuovo modello di santità: la figura del monaco eremita, che abbandonava volontariamente lo spazio della città, dominato da interessi mondani, e sottoponeva il proprio corpo ad un “martirio bianco”, consistente in un rigidissimo regime penitenziale. Proprio in virtù dello straordinario controllo sugli appetiti primari del corpo (fame, sete, istinti sessuali) e della totale rinuncia ad ogni forma di comodità – Sant’Antonio Abate (251 ca.-357), grande padre del monachesimo orientale, giunse persino a vivere in un sepolcro! – tali asceti erano riconosciuti e venerati come “uomini di Dio”, giungendo ad attirare – con un esito per certi aspetti paradossale – grandi folle di fedeli provenienti proprio da quella società che essi avevano abbandonato per il “deserto”, inteso in senso lato come spazio incolto e disabitato contrapposto alla città.
Le forme di penitenza andavano talvolta ben oltre rigidi digiuni e rinunce, contemplando vere e proprie forme di dolorosa mortificazione della carne. Particolarmente significativo è il caso di San Domenico Loricato, discepolo di San Pier Damiani (1007-1072), grande riformatore della Chiesa, nonché instancabile propugnatore e organizzatore del monachesimo eremitico. Come ha evidenziato il prof. Longo nel corso del seminario, San Pier Damiani introdusse una nuova pratica penitenziale, l’autoflagellazione, che dovette risultare estrema anche agli occhi dei contemporanei, tanto da suscitare l’accusa di indiscretio, vale a dire di violazione dell’ideale monastico della moderazione. Ma è importante notare che tali pratiche penitenziali costituiscono un’interessante testimonianza dell’affermazione di una nuova spiritualità tesa all’identificazione con il Cristo sofferente. In tale contesto si inscrive la straordinaria esperienza ascetica di Domenico Loricato, che giunse a fasciare il proprio corpo con una stretta corazza di ferro (lorica) e a flagellarsi ripetutamente con uno strumento detto “disciplina” mentre recitava con devozione il Libro dei Salmi. Pier Damiani racconta nella sua Vita del suo discepolo che quando il santo asceta si spogliava per flagellarsi nel capitolo del monastero, alla presenza dei confratelli, “sembrava che le sue membra, consumate dal digiuno e logorate dagli spigoli della corazza, avessero preso un colore nero come quello degli Etiopi”.
Se il corpo è lo strumento attraverso il quale il vir Dei costruisce in vita la propria santità, ancor più decisivo è il ruolo svolto dalle spoglie mortali dei santi. Poiché conservano anche dopo la morte la loro virtus taumaturgia, tanto da attirare numerose folle di fedeli in cerca di guarigione fisica e spirituale, le spoglie mortali dei santi costituiscono nell’ottica cristiana degli autentici pignora sanctorum, vale a dire dei pegni della sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo e dunque della salvezza eterna. Si tratta dunque di autentici tesori della fede, racchiusi in preziosi reliquiari e custoditi all’interno di santuari che si configurano a partire dalla tarda antichità come grandi poli di attrazione dal punto di vista politico, socio-economico ed urbanistico.
Proprio l’affermazione del culto dei corpi santi, a partire dalla costruzione delle grandi basiliche martiriali in età costantiniana, costituisce un punto di svolta nell’organizzazione degli spazi urbani. Secondo a legge romana, infatti, i corpi dei defunti dovevano essere tenuti rigorosamente al di fuori del pomerium, il confine della città, in apposite necropoli, autentiche “città dei morti”. L’affermazione del culto dei corpi santi portò invece all’interno della città le spoglie mortali oggetto di venerazione, e in molti casi il nuovo fulcro della vita urbana venne ad essere costituito proprio da chiese cattedrali costituite sulle tombe di santi vescovi. La virtus delle reliquie divenne inoltre un importantissimo strumento per la definizione dello spazio consacrato. Nel primo cristianesimo la fede era infatti priva di forti legami con spazi consacrati, giacché gli stessi fedeli si identificavano con le “pietre vive” della Prima lettera di Pietro (2,4). L’ecclesia era dunque percepita come assemblea dei fedeli, senza connotati spaziali specifici. Ma l’affermazione del culto delle reliquie portò ad una progressiva “spazializzazione” del cristianesimo, sempre più legato a spazi consacrati in virtù della presenza di corpi santi. Nel 401 il concilio di Cartagine giunse così a stabilire la necessità della presenza di una o più reliquie per la consacrazione degli altari.
Il ruolo fondamentale dei corpi santi nella definizione dello spazio sacro moltiplicò rapidamente la richiesta di reliquie e in questo processo Roma si affermò quale polo di attrazione principale, in virtù delle numerosissime reliquie martiriali conservate nell’Urbe, che attraevano schiere di pellegrini fin dalla Germania e dai lontani regni anglosassoni. Di fronte alla crescente richiesta di reliquie, necessarie ai fini della consacrazione degli altari e dotate di un grandissimo valore socio-economico oltre che religioso, si affermò ben presto un fiorente commercio, nel quale intervenivano non di rado spregiudicati falsari, come testimonia il resoconto della traslazione delle reliquie dei Santi Marcellino e Pietro presso l’abbazia tedesca di Selingstadt sul Meno, scritto dall’importante autore carolingio Eginardo, consigliere e biografo di Carlo Magno. Talvolta le reliquie erano persino oggetto di veri e propri furti, raccontati con dovizia di particolari da Eugenio Duprè Theseider in La “Grande Rapina dei Corpi Santi” dall’Italia al tempo di Ottone I (1964) e da Patrick Geary in Furta Sacra: Thefts of Relics in the Central Middle (1978). Gli esempi più noti riguardano senz’altro le reliquie di San Marco e San Nicola, che i marinai veneziani e baresi sottrassero con l’inganno alle comunità cristiane di Alessandria d’Egitto e Mira (attuale Turchia). E interessante notare che di fronte alle proteste delle comunità “derubate”, gli autori del furto rispondevano individuando nel buon esito dell’operazione il segno del favore del santo, evidentemente – a loro avviso – ben disposto al trasferimento di sede.
La venerazione dei corpi santi esercitò inoltre una forte attrazione sulle autorità politiche, che in virtù del possesso di preziose reliquie intendevano porre un fondamento sacrale al proprio potere ed accrescere il proprio prestigio. Particolarmente interessante è la richiesta avanzata dall’imperatrice Costantina nel 594 in una lettera indirizzata a papa Gregorio Magno: la sovrana bizantina chiedeva nientemeno che l’invio della testa di San Paolo, o in subordine altre reliquie dell’apostolo. Nel motivare la sua risposta negativa -sempre difficile quando il destinatario era di rango imperiale – Gregorio Magno fece riferimento alla legge romana, che proibiva sotto pene severissime la cosiddetta contractatio, cioè l’asportazione delle spoglie mortali, suffragando la sua posizione con racconti relativi alle punizioni divine che avevano raggiunto coloro i quali avevano tentato di sezionare i corpi di San Pietro, San Paolo e San Sebastiano. Ma alla base della risposta negativa c’era dell’altro: come il suo predecessore Ormisda, che nel 519 oppose un rifiuto analogo a Giustiniano, Gregorio Magno non aveva alcuna intensione di cedere le reliquie dei principi degli apostoli a Costantinopoli, sede patriarcale sempre più rivale di Roma. Su scala minore è inoltre meritevole di interesse il caso della dinastia feudale dei Canossa, il cui capostipite Azzone volle legittimare la propria ascesa in virtù del possesso di preziose reliquie, che individuò nelle spoglie mortali di Sant’Apollonio, fatte giungere da Brescia grazie alla collaborazione del vescovo locale, zio dello stesso Azzone.
Il valore dei corpi santi era tale da suscitare frequentemente forti tensioni fra le comunità che ne rivendicavano il possesso, in rapporto al loro legame con la vita del santo e con i prodigi da esso operati. Particolarmente significativo è il caso di San Martino, il cui corpo fu conteso dalle città di Poitiers, nel cui territorio il santo era stato monaco, e Tours, dove egli aveva ricoperto la carica di vescovo. Sopraggiunta la morte del santo, i due rappresentanti delle due città iniziarono a sorvegliarsi a vicenda, per evitare che i rivali si impossessassero del suo corpo, e la questione fu decisa soltanto da un’azione a sorpresa dei Turonensi, che approfittando di una distrazione dei Pittavensi calarono il corpo di Martino dalla finestra e lo portano via in barca. Il suo arrivo a Tours fu salutato da grida di gioia, e in effetti tale giubilo fu ben giustificato, giacché in virtù del possesso del corpo di San Martino la città di Tours si affermò come uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio d’Europa, tappa di primaria importanza nell’itinerario che dalla Francia conduceva i pellegrini a Roma, alle tombe degli apostoli (“ad limina apostolorum”), per poi proseguire verso il santuario di San Michele al Gargano e Brindisi, da dove ci si imbarcava per la Terra Santa.
Lungi dall’essere un fenomeno confinato alla credulità popolare, la venerazione dei corpi santi fu dunque un aspetto fondamentale della costruzione dell’Europa cristiana, nei suoi aspetti politici, sociali ed economici oltre che devozionali, e merita pertanto un’adeguata considerazione storico-cuturale, che non si fermi a superficiali giudizi liquidatori fondati sulla mutata sensibilità in merito alla sfera del corpo e della morte.