Oggi la Grecia ha annunciato il primo caso di coronavirus nel campo di Moria, il suo più grande campo di rifugiati, sull’isola di Lesbo. Si tratta di un somalo di 40 anni, risultato positivo, ha detto una fonte del Ministero della migrazione, spiegando che l’uomo è un rifugiato recentemente tornato sull’isola da Atene. Qui, nel campo di Moria, vivono quasi 13.000 persone richiedenti asilo in condizioni precarie, nonostante la struttura abbia una capacità di meno di 2.800.
Il campo di Moria: una città in continua espansione
Come spiega l’Internazionale, il centro del campo di Moria era stato pensato per ospitare meno di tremila persone, per pochi mesi. Ma lentamente è andato espandendosi.
Oggi Moria è il campo profughi più grande d’Europa, con le sue baracche, gli esercizi commerciali improvvisati lungo le stradine interne, le tende costruite sui terrazzamenti, tra gli alberi di ulivo e i cumuli di immondizia. In generale l’elettricità è distribuita attraverso allacci di fortuna. I bagni sono insufficienti, l’acqua non è potabile e i servizi sono di fatto forniti dalle decine di organizzazioni non governative locali e straniere che lavorano all’interno e all’esterno del campo. Buchi nelle recinzioni metalliche fanno sì che si possa entrare e uscire dal centro di detenzione, senza quasi neanche accorgersi di passare nella tendopoli.
Vivere nella paura: il Coronavirus nel campo di Moria
Baraa Altaha, 49 anni, rifugiata originaria di Idlib, in Siria, aspetta anche lei da mesi di trasferirsi sulla terraferma: anche se ha ottenuto i documenti, non ha i soldi per farlo.
Altaha – scriveva a marzo l’Internazionale – è preoccupata per il pericolo di diffusione del coronavirus nel campo di Moria, dopo che a Lesbo è stato registrato il primo caso di malattia. La donna siriana si informa:
C’è una cura? C’è un vaccino?
L’igiene nel campo, lo sappiamo, è molto più che scarsa e le persone vivono in pochi metri quadrati, condividendo spazi e servizi. Come ci si lava le mani se non si ha l’acqua a disposizione? Così, per dire.
La diffusione della malattia potrebbe essere rapida e devastante. Presto lo scopriremo: continuerà a chiamarsi Moria o lo chiameremo Morìa?
Una bomba pronta ad esplodere
Gli esperti hanno più volte avvertito che la situazione nel campo non è solo una questione umanitaria, ma anche una vera e propria bomba pronta ad esplodere in qualunque momento nella lotta contro la pandemia. Nonostante questo, il governo greco non avrebbe assunto nessuna misura per fermare la diffusione della malattia.
Dall’inizio dell’emergenza Covid, tutte le organizzazioni umanitarie sul campo chiedono il trasferimento della maggior parte delle 38mila persone che si trovano sulle isole greche (Lesbo, Samos e Chios) e chiedono agli stati europei di riattivare i canali di ricollocamento all’interno dell’Unione europea, come era avvenuto nel biennio 2015-2017.
Tuttavia nel vertice di Bruxelles del 10 marzo c’è stato un accordo solo tra alcuni paesi – Finlandia, Francia, Lussemburgo, Portogallo – per il ricollocamento di 1.500 bambini in condizioni di vulnerabilità dalle isole greche. L’accordo di Bruxelles con Ankara non ha subito nessuna modifica. Un impegno davvero insufficiente.
Così, oggi, è ufficialmente scoppiato il primo caso di coronavirus nel campo di Moria
A renderlo pubblico è Nawal Soufi, attivista da anni nel campo, attraverso un post su Facebook:
La giornata comincia davvero male. Abbiamo ufficialmente il primo caso di coronavirus dentro il più grande campo rifugiati d’Europa.
L’uomo è stato messo in isolamento e le autorità stanno cercando di rintracciare le persone che aveva incontrato, afferma un funzionario del ministero della migrazione. Una dichiarazione congiunta dei ministeri dell’asilo, della salute e della protezione civile afferma inoltre che il campo dovrà essere messo in quarantena per 14 giorni e che il personale di sicurezza sarà aumentato per controllare i punti di ingresso alla struttura. Ma, come scrive Nawal:
Sono senza parole. Vorrei ricordare a tutti che qui a Moria siamo in lockdown da 6 mesi e non è stato fatto neanche un tampone alle circa 22.000 persone bloccate nel campo fino a qualche mese fa. Adesso siamo circa 15.000 esseri umani in un posto che potrebbe ospitarne 3000.
Ancora una volta, il campo migranti di Moria è l’inferno in piena Europa. Ma allora è vero che a Lesbo finisce l’Europa? Perché l’Europa – un’organizzazione sovranazionale che si è impegnata a tutelare i diritti fondamentali, almeno sulla carta – conosce bene queste storie, una per una. Non è sono solo responsabilità del governo greco. È anche nostra, i “vicini di casa”.
Giulia Chiapperini