Mentre il coronavirus sta devastando i Paesi occidentali, le loro economie, i loro sistemi sanitari e la tenuta psicologica dei loro abitanti, uno scenario ancor più inquietante si staglia all’orizzonte: se per caso il coronavirus dovesse raggiungere le stesse cifre in Africa e negli Stati più provati dalla povertà, quali sarebbero le conseguenze?
Al 1° di aprile, erano 48 gli Stati in Africa già colpiti dal Coronavirus, su un totale di 54. I contagi hanno superato le 5 mila unità e i decessi sono quasi 200, mentre sono oltre 370 le persone guarite, secondo i dati forniti dai Centri di controllo delle malattie dell’Unione Africana. Al momento è il Sudafrica il Paese più colpito, con 2 morti e 1326 casi. Seguono Egitto, con 646 casi e 41 morti, l’Algeria, con più di 2000 casi e 118 vittime, e il Marocco con, 556 casi e più di 30 morti.
Questi sono solamente i numeri noti, tutto sommato contenuti, di una pandemia venuta con tutta probabilità dai focolai di contagio emersi in Europa. L’obiettivo, ora, per gli enti e i governi del territorio è limitare le catene di contagio locali, che rischiano di favorire la propagazione capillare dell’epidemia, mettendo a dura prova le capacità di reazione dei sistemi sanitari africani.
L’Africa però ha alcune caratteristiche particolari
La situazione della pandemia in Africa, presenta però alcune peculiarità. Innanzitutto, bisogna considerare un fattore tanto sprezzante quanto cinicamente importante nella letalità del virus. In Africa, l’età media della popolazione è inferiore ai 20 anni e la mortalità dell’epidemia potrebbe comportare dei numeri più contenuti. Non mancano incertezze, dovute però spesso alle complicazioni del virus quando si va a sommare a situazioni patologiche già delicate, anche nei giovani.
Alcuni scienziati, poi, sostengono che la popolazione africana, resiliente in generale all’incidenza di malattie endemiche come malaria e dengue, oltre all’ebola, potrebbe conferire agli stati del continente un patrimonio importante, in termini di risposta nell’emergenza, contando su misure di contenimento già sperimentate e peculiarità culturali. I sistemi sanitari però sono fragili: in media in Africa c’è un medico ogni 5 mila abitanti e la spesa sanitaria media si aggira attorno al 5% del Pil.
Sudafrica e Senegal in prima linea
Innanzitutto, bisogna fare i conti con le terapie intensive. In Sudafrica, uno stato con 56 milioni di abitanti e la 25° economia al mondo per potere d’acquisto, i posti sono meno di 1000. E lo stato dispone di uno dei migliori sistemi sanitari del continente. Ma la questione riguarda anche le capacità di diagnosi e controllo: inizialmente solo in Sudafrica e Senegal erano presenti strutture (due, in tutto) attrezzate a effettuare i tamponi.
In poco tempo, grazie al supporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il numero di Paesi attrezzati a provvedere ai test è stato portato a 43. L’Africa Center for Disease Control and Prevention e l’Unione Africana, conseguentemente, hanno unito le forze e messo insieme una task force continentale, composta principalmente da Kenya, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Marocco.
La conta al ribasso, anche qui
La preoccupazione più pressante è la stessa rispetto al resto del mondo: la conta dei casi al ribasso dei casi di coronavirus, anche in Africa. Guardando infatti all’evoluzione della pandemia nel mondo, anche qui ci si attende un innalzamento preoccupante dei numeri. E tutto il mondo è paese anche in questo: molte compagnie di bandiera africane hanno dapprima cancellato i voli con la Cina, poi sono state imposte le quarantene e i divieti di ingresso per i viaggiatori provenienti dalle aree più colpite, come per i turisti italiani diretti alle Mauritius.
Il presidente senegalese Sall ha chiuso scuole e università per tre settimane, cancellando poi anche le manifestazioni religiose. Ramaphosa, presidente del Sudafrica, ha poi dichiarato l’emergenza nazionale, allineandosi al Senegal per le misure di lockdown e molti altri Stati ne hanno seguito l’esempio.
Gli scenari economici
La crisi dell’industria energetica e del turismo, oltre al crollo delle rimesse, non lascerà l’economia africana indenne da difficoltà. La Commissione Economia dell’Onu ha pubblicato una stima piuttosto ottimistica, prevedendo una diminuzione nella crescita del Pil, di un punto e mezzo percentuale. Per i governi, poi, si profila una perdita negli introiti fiscali. Ne seguirebbe un aumento del debito difficile da sostenere, con ricadute pesanti sulla stabilità dei Paesi. La domanda di petrolio, che ha già subito pesanti shock, potrebbe comportare perdite fino a 65 miliardi di dollari per gli stati produttori. Bisogna infatti considerare che il 7,4% del Pil dell’intero continente africano, nel triennio 2016-2018, è derivato dagli idrocarburi. Il settore ha infatti fornito 166 miliardi di dollari di proventi da esportazione all’anno. Si stima che nel 2020, gli introiti crollino fino a 101 miliardi di dollari.
I Paesi maggiormente colpiti potrebbero essere Angola e Nigeria, nazioni in cui il petrolio rappresenta circa il 90% delle esportazioni. Il problema principale delle economie africane è infatti la loro non diversificazione. Spesso si tratta di Paesi in cui l’economia è retta al massimo da un paio di voci, tra cui il petrolio appunto. Togliendo questo, quindi, gli effetti del crollo sarebbero devastanti.
Il forte legame economico con la Cina
Gli stati subsahariani, poi, hanno anche una forte connessione con l’economia cinese. Sono circa 200 mila i lavoratori cinesi in Africa e circa 80 mila gli studenti africani in Cina. Quest’ultima è il principale partner commerciale del continente africano: più del 60% dell’export africano che viaggia verso la Cina è composto da idrocarburi. In più, la Cina è il principale investitore statale in Africa. Ciò vale soprattutto per la zona orientale e nel settore dei trasporti, a supporto della BRI del presidente XI Jinping.
L’illusione delle barriere
Come ogni cosa, la gestione pre, durante e post pandemia in Africa sarà caratterizzata da altre complicazioni economiche e sociali. Queste andranno a gravare ulteriormente su situazioni già compromesse da catastrofi ambientali, come le alluvioni in Uganda, o dai conflitti interni in Mali e in Burkina Faso. Ancora una volta, il virus ci pone davanti a una considerazione troppo spesso ignorata nel mondo contemporaneo. I paesi più ricchi, seppure ancora alle prese con la pandemia nei loro ospedali, non potranno ignorare gli effetti dirompenti di una calamità simile nei Paesi sottosviluppati.
Anche questa volta, la delicata zattera del pianeta Terra non può restare a galla, se molti affondano. Se le disuguaglianze nazionali e internazionali persistono, infatti, tutti perdono. Non importa quanto siano alte le barriere della fortezza entro cui si chiudano i Paesi ricchi, la limitazione della pandemia implica il garantire a tutti i Paesi, anche a livello locale, la possibilità di effettuare test e ricevere cure.
Elisa Ghidini