Il lockdown prevede il divieto di assembramenti, ma questo non ha fermato le donne polacche, che sono riuscite a far convivere Coronavirus e manifestazioni.
Ora che il Paese, come tutto il Pianeta, è impegnato nella lotta al Coronavirus, in Polonia si prova di nuovo ad inasprire le leggi contro l’aborto e l’educazione sessuale. Naturalmente, i media sia nazionali che internazionali hanno quasi del tutto ignorato la notizia, concentrati a diffondere aggiornamenti sulla pandemia in atto. Il lockdown non ha però fermato le attiviste polacche, che sono riuscite a manifestare pur rispettando il distanziamento sociale. Così, il binomio Coronavirus e manifestazioni, si è dimostrato tutt’altro che impossibile.
Le leggi in discussione sono due. La prima mira ad eliminare l’accesso legale all’interruzione di gravidanza per malformazione e malattie genetiche del feto. L’obiettivo della seconda, invece, è quello di rendere illegale l’insegnamento dell’educazione sessuale, e vietare ai medici di fornire cure contraccettive a minori di 18 anni.
«Il governo forse pensava che le restrizioni imposte per il Coronavirus ci avrebbero fermate, ma si sono sbagliati. Abbiamo protestato in auto, in bicicletta, dalle finestre e dai balconi. E poi otto ore di protesta in streaming su Facebook, cui hanno partecipato oltre 100.000 persone. Naturalmente saremo perseguitate: oltre 100 persone stanno già aspettando di essere multate, ma faremo ricorso in tribunale e vinceremo. Il fatto che i due testi di legge siano stati rinviati in Commissione è comunque un risultato della nostra azione».
Questo il commento di Marta Lempart, figura di spicco di Osk (Ogolnopolski Strajk Kobiet, che significa Sciopero nazionale delle donne). Dello stesso parere Klementyna Suchanow, co-organizzatrice di Ogólnopolski Strajk Kobiet, che ha detto:
«Le donne polacche lo considerano come un disonore alla loro dignità, e sono sconvolte dal fatto che il governo, anziché aiutarle, stia cercando di togliere loro dei diritti».
La protesta in mascherina è iniziata lo scorso martedì.
Nelle strade sia di Varsavia che di Cracovia, insieme alle attiviste anche alcuni automobilisti hanno affisso striscioni ai finestrini delle loro macchine.
Irene Donadio, consigliera strategica per l’Europa presso la sede di Bruxelles di IPPFEN, e profonda conoscitrice della realtà polacca, si è detta elettrizzata dalla capacità delle attiviste di organizzarsi e far sentire la propria voce nonostante il lockdown. La Donadio ha sottolineato il coraggio di queste donne, perfettamente consapevoli del fatto che saranno perseguitate per la loro protesta.
Pare infatti che Marta Lempart sia già stata citata in giudizio 17 volte, oltre a subire continuamente attacchi di hate speech sui social media. Klementyna Suchanow ha invece subito gravi lesioni alla schiena a causa delle violenze della polizia. La giornalista è riuscita ad operarsi solo grazie al crowdfunding delle attiviste e degli attivisti della Women Strike.
Si tratta di una battaglia di fondamentale importanza.
Lilia Giugni, direttrice di GenPol: Gender & Policy Insights, ha sottolineato che l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha definito i servizi legati alla salute sessuale e riproduttiva come prestazioni mediche essenziali.
«Limitarne l’accesso durante la pandemia significa incrementare a dismisura il numero di gravidanze non volute e di aborti poco sicuri, mettendo in pericolo la salute delle donne e aumentando nel medio termine il peso sul sistema sanitario».
Questo il commento della Giugni sulle nuove proposte di legge. La ricercatrice ha sottolineato che «sono tante a livello globale le forze reazionarie interessate ad approfittare dell’emergenza per minare ulteriormente i diritti sessuali e riproduttivi».
Per fortuna le donne, almeno quelle polacche, hanno preso il coraggio a piene mani, rendendo possibile l’accostamento tra Coronavirus e manifestazioni. Per dirla con le parole di Klementyna Suchanow:
«Sono guerriere impavide; anche nei villaggi più remoti della Polonia non hanno paura di niente, neanche del movimento di giovani fascisti e della violenza»
Mariarosaria Clemente