L’ultima follia della Corea del Nord: chi viene colto in flagrante rischia la pena di morte o 15 anni di lavori forzati
Una nuova legge punisce severamente chiunque aderisca a modelli estetici o di comportamento di stampo occidentale. In Corea del Nord, l’inquisizione s’insinua anche nel guardaroba: non si è più liberi neanche di indossare un paio di jeans attillati. Chi viene sorpreso a guardare un film straniero, in particolare americano, giapponese o sudcoreano, rischia fino a 15 anni di detenzione nei campi di rieducazione o addirittura la morte. La denuncia arriva dalla BBC: un testimone oculare racconta di aver assistito per la prima volta ad un’esecuzione quando aveva soli 11 anni. Il capo d’imputazione per l’uomo consisteva nell’essere un fan delle soap opera sudcoreane. I giustizieri di Kim Jong-un costrinsero tutto il vicinato ad assistere, trasformando l’esecuzione in un horror a cielo aperto che fungesse da monito per tutti.
La minaccia del dittatore ai giovani: “contrastare comportamenti sgradevoli, individualisti e antisocialisti”
Kim Jong-un, dittatore della Corea del Nord, ha lanciato un messaggio alla Lega della Gioventù. Attraverso i suoi canali social, ha invitato i più giovani a non assumere “comportamenti sgradevoli, individualisti e antisocialisti”. Di recente tre ragazzi sarebbero stati internati in un campo di rieducazione a causa della loro pettinatura e della loro mise. Ogni briciola di influenza culturale straniera, rintracciabile nello slang, nell’acconciatura, nel PC o nella galleria multimediale dello smartphone, è classificata come sgradevole, individualista e antisocialista. Un’offesa al regime, un “veleno pericoloso” che può costare la pelle. L’intento delle nuove leggi sarebbe quello di contrastare la diffusione del cosiddetto “pensiero reazionario”. Lo Stato nordcoreano parrebbe etichettare come reazionario tutto ciò che non è in linea con l’ideologia del regime. Un regime che sta restringendo progressivamente il perimetro delle libertà dei suoi cittadini, e non solo metaforicamente.
L’isolamento forzato della Corea del Nord
C’è chi definisce la Corea del Nord come un grande centro di detenzione, un bunker: i confini del Paese sono netti e sempre più difficili da valicare, sia fisicamente che culturalmente. Il regime socialista ha costruito la propria politica facendo leva sull’isolamento forzato della nazione dal resto del mondo. Ciò ha contribuito ad innalzare l’alone di mistero e diffidenza che aleggia attorno alla Corea del Nord, già sorvegliata speciale a causa del suo arsenale nucleare e missilistico.
In Corea del Nord i “blackout” sono frequenti: la comunicazione è il nemico giurato del regime
È risaputo che l’informazione e i regimi autoritari non siano buoni amici: entrare a contatto con altre realtà permette di prendere coscienza delle criticità della propria. Il primo bersaglio di ogni guerra alla libertà è la comunicazione. Ogni contatto con il mondo al di fuori è un potenziale veleno pronto ad intossicare la purezza e l’integrità del Paese, baluardo del socialismo. In quest’ottica, la circolazione di mode e media stranieri è intesa come un cavallo di Troia, capace di introdurre clandestinamente anche idee e ideologie straniere. La comunicazione con l’estero sta diventando un miraggio. L’utilizzo di internet, che comprende solo i siti autorizzati dal governo, non sempre è concesso. Le telefonate verso l’estero sono rare e mal tollerate. Quest’isolamento rende difficile la circolazione di notizie sia verso l’interno che verso l’esterno: questo rende necessario chiarire che l’attendibilità delle fonti non è facile da verificare. Non è raro che sulla Corea del Nord circolino notizie poi smentite, classificate come imprecise o addirittura completamente false.
La Corea del Nord sembra essere teatro di un romanzo distopico moderno
Sensazione condivisa e diffusa è quella di ritrovarsi catapultati nel secolo scorso, in un romanzo distopico, in stile 1984 di George Orwell. “The dictator is watching you”: potremmo immaginare cartelloni di propaganda simili affissi per le strade di Pyongyang. O immaginare di vedere la faccia di Kim spuntare in TV durante la pubblicità, per ricordare alla gente di non guardare Dirty Dancing o Pretty woman. Oppure di sentire la sua voce tuonare dalla tasca dei jeans: – Non indossarli!
Sarcasmo a parte, quello che le indiscrezioni riportano dalla Corea del Nord non sembra essere solo censura. L’obiettivo pare quello di un ritorno forzato alla verginità di costumi: ogni forma di contaminazione straniera deve essere debellata.
Prevenire la “contaminazione culturale” è possibile nell’era della globalizzazione?
Sembrerebbe impossibile. La storia culturale di un popolo non si muove in linea retta, ma su un curvilineo che interseca altri milioni di storie e culture. Chiudersi ermeticamente attorno alla propria e pretendere di tranciare ogni ramo estraneo alle proprie radici è un’utopia. Dunque, se l’idea della Corea del Nord è quella di riscrivere la propria cultura e costringerla ad una marcia rettilinea e monocromatica, non sarà facile. Viviamo in un mondo in cui un ristorante di sushi fattura più in Italia che in Giappone, ci sono più pizzerie napoletane a New York che a Napoli. Questo perché portare una novità dall’estero è il valore aggiunto. Il mondo è un mosaico fluido di culture. Pensare di isolare una linea pura è una velleità. Forse l’errore sta proprio nell’intenderle come “contaminazioni” e non come parti integranti della costruzione dell’identità socio-culturale di un popolo.
Maria Luisa Zecca