Quando le copertine degli album diventano autentiche opere d’arte

Se è vero che non si giudica un libro dalla copertina, non si può dire lo stesso per i dischi. In molti casi è proprio essa a rappresentare il valore aggiunto, per il successo di un particolare lavoro discografico.

Spesso è la copertina di un album a veicolare un fenomeno di costume, diventando parte dell’immaginario collettivo di una generazione.

La fantasia e l’impatto visivo di molte copertine famose hanno lasciato un segno talmente forte che, spesso, ci si meraviglia del fatto di non vederle esposte nei musei di mezzo mondo.

Alcune di esse appartengono non solo alla storia della musica; in molti casi determinano il marchio di fabbrica di un musicista, una band, un movimento politico e persino un’intera generazione.

Da Elvis a i Beatles, dai Sex Pistols a Bruce Springsteen, ad ogni storia corrisponde una copertina capace di intercettare lo spirito musicale del tempo, facendolo coincidere con un prodotto finito, la cui immediatezza semantica decodifica il manifestarsi del cosiddetto “colpo d’occhio”.




Se volessimo stilare un classifica dei dischi migliori della storia della musica (pessima attitudine di certa stampa musicale), dovremmo realizzarne una anche per le copertine. Ma ciò che conta è la capacità di saper individuare la bellezza espressiva di tali opere d’arte e la spontaneità con la quale sono entrate nel cuore della gente, diventando parte dell’intero processo creativo di un album musicale.

L’esempio più famoso è quello della Banana realizzata da Andy Warhol per I Velvet Underground e Nico: una perfetta simbiosi tra pop art e impressionismo musicale americano, tipico della New York di fine anni ’60.

velvet underground

Restando a New York, come non ricordare la cover di “London Calling” dei Clash, che vede il bassista Paul Simonon accanirsi sul suo basso Fendermentre il mondo assiste all’ennesimo stravolgimento tra costume e società, alla vigilia degli anni ’80.

Londra è probabilmente il luogo dove l’arte grafica comincia a parlare il linguaggio della poliedricità. Molti sono gli artisti che sfruttano le potenzialità dell’immagine: tra essi David Bowie, uno degli artisti più eclettici della storia. Tante sono le immagini con le quali il fotografo Brian Duffy è riuscito a creare una vera iconografia del “duca bianco”, mettendone in risalto le sue peculiarità camaleontiche, sotto il profilo estetico e artistico.

 

Ma quando si parla di cover celebri, i Pink Floyd rappresentano probabilmente il punto più alto.

La simbologia e l’accostamento a scene, personaggi e oggetti fuori dal contesto ordinario, frutto della fantasia di Storm Thorgerson e il suo studio grafico Hipgnosis, rappresentano il trait d’union visivo fra spirito e materia, suono e immagine.

Altra copertina fondamentale è quella dell’album “Sgt. Pepper’s lonely hearts club band” dei Beatles, nella quale la doppia rappresentazione dei fab four, unita alla presenza di tanti personaggi (anche oscuri) da individuare, ne fanno una delle cover più discusse, analizzate e con il più elevato numero di imitazioni della storia.

 

Anche i Nirvana con “Nevermind” attuarono un’operazione di provocazione simbolica e visuale.

La famosa cover, nata da un’idea dello stesso Kurt Cobain, dopo aver visto un documentario sui parti in acqua, ritrae un bambino nudo che insegue una banconota legata ad un amo.

La storia di queste opere si lega indissolubilmente al valore artistico di questi capolavori. Alcune di queste copertine hanno contribuito così in profondità all’immagine dell’artista, da determinare in maniera indissolubile quel connubio fra suono e immagine che è il vero patrimonio dell’umanità, frutto del ventesimo secolo.

Fausto Bisantis

 

 

 

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