A fine novembre entrerà nel vivo la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tra paradossi e ambiguità. Per la prima volta il summit si terrà in un Paese del Golfo Persico, gli Emirati arabi Uniti, principalmente noto per essere un grande esportatore di combustibili fossili. Ad oggi gli EAU sono il settimo produttore mondiale di petrolio e puntano a incrementare notevolmente la propria produzione di oro nero nel prossimo decennio.
La Cop28 potrebbe non portare grandi novità ma confermare i limiti di sempre quando si parla di clima e di transizione energetica nello scenario globale. Mancano ancora due settimane all’inizio del più importante vertice internazionale che dal 1995 riunisce gli stati membri delle Nazioni Unite per discutere di questioni climatiche, ma la ventottesima edizione del summit che quest’anno si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU), dal 30 novembre al 12 dicembre, sta già facendo parlare di sé in senso non proprio positivo.
Sicuramente la scelta, a dir poco stravagante, del Paese ospitante e la nomina come Presidente della COP28 del Ministro dell’Industria e della Tecnologia Avanzata degli EAU, nonché noto lobbista dell’industria petrolifera emiratina, il Sultano Ahmed Al Jaber, non aiutano a migliorare l’immagine complessiva dell’evento.
Gli EAU sono, infatti, il settimo produttore al mondo di petrolio oltre ad essere tra i pochi Paesi che puntano a incrementare notevolmente la propria produzione di combustibili fossili nel prossimo decennio. E un discorso analogo vale anche per gli altri paesi del Golfo: il Kuwait e il Qatar non hanno previsto obiettivi climatici mentre l’Arabia Saudita e il Bahrain hanno preferito posticipare la neutralità climatica al 2060. Per quanto riguarda l’Iran, invece, l’esportazione del suo greggio resta ancora legata alle sanzioni internazionali.
A questo primo aspetto se ne aggiunge subito un altro: il mercato degli idrocarburi sta diventando sempre più oligopolistico e secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’Energia (IEA) in futuro saranno proprio i paesi del Golfo Persico ad aumentare la produzione di petrolio e gas a livello globale, passando dall’attuale 25% al 40% nel 2050.
Infine, c’è l’incognita dell’instabilità regionale che in quella parte del mondo è una costante ma in queste settimane è stata fortemente amplificata dal conflitto tra Israele e Hamas. Un eventuale allargamento della guerra con un coinvolgimento dell’Iran, potrebbe condizionare le esportazioni mediorientali di combustibili fossili provocando quanto già accaduto innumerevoli volte dal 1973 in avanti.
L’approccio degli EAU alla transizione energetica
Negli ultimi anni, gli Emirati arabi Uniti hanno messo a punto diverse iniziative volte ad incorporare il dossier climatico tra le priorità strategiche del paese. Nel 2015 è stata approvata la “UAE Green Agenda 2030,” un programma che combina gli obiettivi di crescita economica del paese con i suoi sforzi di decarbonizzazione. E nel corso del 2023 hanno aggiornato gli obiettivi climatici EAU con l’intenzione di dare il buon esempio agli altri circa 200 paesi. Ma i risultati stentano a arrivare.
Per il momento, l’obiettivo delle sette monarchie del Golfo persico resta quello di sfruttare pienamente le proprie riserve di petrolio – più della metà delle risorse globali – fin quando il greggio avrà mercato e non sarà gradualmente sostituito.
La strategia di Abu Dhabi è piuttosto chiara: guadagnare sugli idrocarburi per finanziare la propria via alla transizione energetica ed economica. In questa logica rientrano gli enormi investimenti in tecnologia, servizi, turismo e da ultimo nel calcio che nelle intenzioni di Abu Dhabi dovrebbe rendere gli EAU autonomi dagli incassi dei combustibili fossili in futuro.
Gli EAU hanno comunque implementato diversi progetti finalizzati a diversificare il mix energetico nazionale attraverso l’inclusione di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. Il “Mohammed bin Rashid Al Maktoum solar park” ed il “Al Dhafra solar photovoltaics project” rappresentano il fiore all’occhiello della politica energetica green intrapresa dagli emiri del Golfo ma ad oggi non sono ancora operativi a pieno regime.
Un altro pilastro nel piano d’azione emiratino per sostenere la transizione energetica risiede poi nell’energia nucleare, nello specifico in quella prodotta dalla centrale nucleare Barakah. Inaugurata nell’Agosto del 2020, l’impianto mira a soddisfare il 25% del fabbisogno energetico nazionale producendo 5,6 GW di energia.
Il paradosso Dubai: tanto fossile, poche ambizioni
A livello macro, le politiche attuali ci portano dritte verso un mondo oltre 3 gradi più caldo, evidenziando come sul fattore clima la tanto invocata prospettiva globale sembri essere pura utopia. Un numero significativo di Paesi continua a opporsi strenuamente alla transizione progressiva verso forme di decarbonizzazione, vanificando le buone intenzioni della COP che si basa sul consenso dei partecipanti: basta, infatti, che un solo Paese dica no e salta l’accordo.
Pertanto, se da un lato si punta ad arrivare al 30% di energie rinnovabili entro fine decennio, dall’altro lato si prevede ancora un ruolo enorme per i combustibili fossili nel 2050. L’edizione della Cop28 a Dubai esemplifica alla perfezione questo cortocircuito, dato che il Paese ospitante prevede di incrementare ulteriormente la propria fetta di mercato per quanto riguarda le esportazioni di greggio nel mondo entro la metà del secolo.
E infatti, se a Glasgow, nel 2021, la COP costruiva il mondo nuovo dopo il Covid19, dalla COP27 in poi gli stati si sono mossi a piccoli passi e su singoli temi, avanzando sempre in più in ordine sparso. In un mondo caratterizzato da incertezza, volatilità e soprattutto incapacità di pianificazione, alla COP27 l’ormai famoso Global South era riuscito a riprendersi la scena politica, approfittando della debolezza occidentale; ora con la COP28 alle porte la situazione è persino peggiorata anche perché alla guerra in Ucraina si è aggiunta la deflagrazione del conflitto tra Hamas e Israele.
Senza dimenticare che i cosiddetti ‘grandi inquinatori’, continuano a prendere tempo beneficiando di questo lungo periodo di instabilità, mentre nel frattempo giocano la carta del greenwashing. Basti pensare che lo scorso anno il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, è stato costretto a presentare un rapporto che denunciava tecniche di greenwashing negli impegni per il clima del settore privato, rivolgendosi in particolare alle banche e alle società assicurative, dopo gli episodi che hanno visto indebolirsi nel tempo l’iniziativa Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ) lanciata nel 2021. Dal rapporto è emerso che molte delle iniziative non risultavano più sotto controllo delle Nazioni Unite e che oltre il 70% delle aziende aderenti possedeva ancora capitali e asset investiti nel settore del carbone.
Gli emiratini organizzano, gli emiratini inquinano
Dopo l’approvazione della prima UAE Green Agenda 2030, nel 2015, la Presidenza emiratina si è impegnata attivamente nel lanciare iniziative green, preoccupandosi di stringere accordi dal valore sostanzialmente politico e mediatico. Gli EAU pongono molta enfasi sull’azione climatica perché ambiscono a fare della COP28 il vertice climatico con la più alta partecipazione di sempre, nella speranza che l’opinione pubblica mondiale dimentichi per due settimane che la piccola monarchia petrolifera del Golfo è il sesto maggior emettitore pro capite di CO2 al mondo con 22 tonnellate per persona all’anno.
Ma realtà dei fatti racconta tutta un’altra storia: l’agenza sul tema della decarbonizzazione è ferma al 2021 e quasi sicuramente non ci saranno delle grosse novità nel corso del vertice di Dubai. D’altronde, pensare seriamente che un evento dedicato alla lotta contro il riscaldamento globale organizzato da uno dei maggiori esportatori di combustili fossili possa rappresentare un’opportunità storica per il pianeta, supera persino i confini del paradosso per entrare di diritto nel regno del grottesco dove illusioni diplomatiche ed ecologiche convivono in armonia e anche un sultano petroliere può salvare il mondo dalla crisi climatica.
Tommaso Di Caprio