Una nuova epoca di sprechi: il paradosso dei consumi Zero Waste

Ve li avevamo già presentati: nuovi stili di vita per ridurre i consumi soprannominati zero waste;

Speriamo quindi che vi stiate tutti prendendo cura dell’ambiente, salvando il Pianeta dall’inquinamento e dalle discariche, e soprattutto seguendo l’ultima moda fra gli influencer di Instagram e sui social network…

Se invece vi hanno detto (o ritenete voi stessi, realizzata la mole di rifiuti che produciamo) che è difficile iniziare, non dovete preoccuparvi: sono già in vendita diversi kit, fatti apposta per voi… Ecco come l’ultima generazione di una società dedita agli sprechi,  sta dando vita al paradosso dei consumi zero waste.


Sono l’ultimo appello per la tutela dell’ambiente: accorgimenti e gesti volti a limitare gli sprechi e i consumi, soprannominati zero waste.  Abbandonare il superfluo, rinunciare ad acquistare subito l’ultima novità per rimpiazzare il “vecchio” (che magari ha tre anni…), ridurre al minimo i propri rifiuti e così il proprio impatto sul Pianeta: uno stile di vita zero waste ha effettivamente tutta l’aria di un’impresa ardua e complicata, soprattutto in una società abituata al consumismo sfrenato, a un incessante ciclo di compra-getta-compra-getta (dove spesso il passaggio dell’usa viene evidentemente addirittura saltato…)

È per questo motivo forse, che l’industria dei consumi si è ormai già adoperata per proporci una via alternativa, più comoda e con meno rinunce – anzi con la possibilità di dotarsi di un armamentario di oggetti del tutto nuovo e di tendenza – per diventare perfetti zero waster: coloro che creano meno rifiuti, e anzi idealmente non ne producono affatto.
Esplosi perciò gli acquisti (e il business) di utensili in bambù – piatti, posate, spazzolini, quaderni, matite, cotton fioc – oppure che ci rassicurano perché “biodegradabili”: sacchetti, vaschette, abiti, bicchieri, e ovviamente bottigliette dell’acqua…

Ma non ci eravamo detti di ridurre i consumi e gli sprechi?

Tutti buoni propositi (che rischiano di finire in discarica)

Immaginate quindi ora, montagne di cotton fioc, cumuli di posate e stoviglie di plastica, torri di bicchieri monouso, gigantesche masse di assorbenti appallottolati, miliardi di buste e sacchetti ormai fusi in un unico blob terrificante e disgustoso…
Abiti in poliestere e materiale sintetico – del genere t-shirt a €2 l’una, o scarpe da ginnastica per cinque euro il paio – abbandonati per strada, accanto a lunghissimi binari di cannucce rifiutate, e ogni sorta di oggetto di cui – dopo un certo periodo di utilizzo – siamo portati a disfarci.

Eppure no, non è lo scenario dell’ennesimo report sull’inquinamento della plastica, o sui rifiuti non riciclabili che finiscono in discarica, bensì una proiezione nel caso in cui tutti, di colpo, seguissimo quei  determinati modelli ideali  di riduzione dei consumi, soprannominati zero waste.

consumi zero waste
Nuova bestia nera: la plastica.

Oppure è il caso di parlare di ideologia zero waste (e non fraintendetemi, sono la prima di quei fanatici che girano sempre con la borraccia, che guardano male chi infila nel carrello le insalate incellophanate, sfoderando i propri sacchetti in stoffa per l’ortofrutta, pronti allo scontro con le norme del personale del supermercato…) – dal momento che certe volte, si ha l’impressione che le premesse indiscutibilmente positive di uno stile di vita zero waste, a un certo punto del percorso facciano una sorta di “deviazione” per alcune persone, per approdare infine nel “nuovo universo del consumismo sfrenato”.

Consumismo: fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate che consiste nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo da parte della massa, suscitato ed esasperato dall’azione delle moderne tecniche pubblicitarie, […] al solo scopo di allargare continuamente la produzione (da Wikipedia).




Presi dalla foga e dall’entusiasmo di unirsi alla lotta agli sprechi, potremmo ritrovarci infatti con il DOPPIO delle cose che si possedevano prima di diventare adepti dello zero waste: non solo buste di stoffa, posate in bambù o alluminio, cannucce di metallo da portare con sé per la vita (davvero fareste tutte le serate con una cannuccia sempre in tasca? Non è meglio abbandonare del tutto l’abitudine? Su, è finita l’età del biberon…), le cover per telefono biodegradabili – e così l’abbigliamento completo che si ha indosso…

Il dubbio riguarda comunque tutto ciò che avevamo prima, e che magari non abbiamo nemmeno terminato di consumare: forse non stiamo facendo altro che generare ancora consumi, soprannominati zero waste per poterceli riproporre in chiave più “verde e sostenibile”

Ancora poco “zero” e parecchio “waste

Forse a noi “maniaci zero waste” fa tanto orrore la parola waste – vale a dire spreco, rifiuti, immondizia – da impedirci di vedere il concetto iniziale, quello originario, di “zero”: che andrebbe tradotto nell’essenziale, nel rifiuto inteso come rispondere “No, grazie”, nel fare a meno di ciò che non serve.

Dunque dovremmo chiederci – ad esempio prima di cestinare l’intero pacco di cotton fioc ancora nemmeno aperto, a favore dell’equivalente fatto di bambù – se il passo che dobbiamo fare in questo momento è in avanti – verso le novità proposte dal mercato e dalle tendenze – oppure in indietro, alla riscoperta di oggetti e abitudini già zero waste, anche se finora non li si chiamava così.

Sembrerebbe infatti che ogni cosa sta diventando “biodegradabile”: una nuova generazione di prodotti pensati per i nostri consumi, soprannominati “zero waste”; fabbricati ex-novo a partire da risorse, materiali che hanno bisogno di essere ottenuti, lavorati, convertiti dall’industria – quando spesso delle alternative “zero waste” o “niente-spreco” già esistono.

…Soltanto che le abbiamo dimenticate, anzi rimpiazzate

È in effetti questo il trucco – vera e propria strategia di guerra – della bestia del consumismo: proporre costantemente qualcosa di “nuovo”, ma soprattutto “migliore (e nel caso della gamma “zero waste” a essere interpellato è anche il nostro essere noi, migliori: sempre consumatori, ma più “consapevoli”, più “ecologici”) – che rimpiazzi il “prima” e lo releghi nel dimenticatoio delle cose che nessuno vuole più. Un po’ come adesso la plastica, insomma.

Hai un problema?” – ed è evidente che sì, ne abbiamo uno con l’ambiente innescato anche dai nostri sprechi – “non preoccuparti, ho io la soluzione che fa per te.

Ma non è che capiterà lo stesso anche ai nostri fantastici kitzero waste”?

Si vedono persino blogger e paladine dello zero waste fondare proprie aziende, con tanto di shop online, dedicate a prodotti e kit “zero waste”. Su questi siti si trovano cerotti “biodegradabili” (25 pz. costano €6.22), guinzagli per cani “in tessuto leggero” a una trentina di euro, cover per telefono e poi kit, kit, kitkit zero waste per qualsiasi evenienza: da viaggio, per radersi, per le pulizie domestiche, per la spesa, per il pranzo, per il periodo di mestruo, per l’igiene orale… fino a quello completo e dunque essenziale: lo zero-waste starter kit (quasi 150 euro).

È pressoché sicuro che questi kit di tendenza finiranno anch’essi nel dimenticatoio. Occorrerebbe invece tenersi ben stretti dei capisaldi durabili, eterni, indipendentemente che li si chiami zero waste o menoda non abbandonare mai più.

Quindi meno rifiuti certo – meno “waste” – ma più rifiuto: rifiuto la cannuccia, il sacchetto e qualsiasi altra cosa etichettato e venduto come “zero waste”.

E ancora: riuso, riduco, riparo, riciclo (a cui possiamo aggiungere riscopro), coronando così le “cinque R” che dovrebbero essere i veri pilastri di uno stile di vita zero waste, senza che esso degeneri in ulteriori sprechi e consumi.

 

 

Alice Tarditi

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