Consolato Campolo, la sanità calabrese e quella morte sospetta

Consolato Campolo

L’emergenza Covid riaccende i riflettori sui problemi degli ospedali calabresi. Nel 2018 il dirigente amministrativo Consolato Campolo tentò l’attacco alla malasanità di Reggio Calabria, indagando su buchi di bilancio grandi come voragini. Sarebbe morto pochi mesi dopo, in circostanze che ancora oggi suscitano diverse perplessità.

Consolato Campolo era a capo di una task force amministrativa che indagava sui buchi di bilancio (milionari) dell’azienda sanitaria di Reggio Calabria. Nominato a gennaio del 2018, in pochi mesi era riuscito a portare a galla le numerose falle presenti nel sistema. Alla compagna diceva: “Oggi ho fatto risparmiare un milione di euro”. A settembre dello stesso anno, Campolo perse la vita a causa di un malore. Infarto, fu la versione ufficiale. Ma non mancano dubbi e sospetti.



Il disastro della sanità calabrese

Infrastrutture fatiscenti, assenza di attrezzature, carenza di personale: queste le condizioni di molti ospedali nell’area di Reggio Calabria. Tutto questo a fronte di spese esorbitanti: si parla di circa 800 milioni di euro, quasi due volte quelli impiegati dal Policlinico di Milano, che pure dispone del doppio dei posti letto. Com’è possibile?

Stando all’inchiesta condotta nel 2019 da Gaetano Pecoraro, il problema nascerebbe dalla mancanza di un bilancio dell’azienda pubblica. Dal 2013 in poi, gli ospedali dell’ASP di Reggio Calabria non avrebbero prodotto alcun tipo di contabilità. In assenza di fatture, i fornitori privati potevano richiedere il pagamento dei propri servizi anche due, tre, quattro volte: generando una fuoriuscita di soldi pubblici che si calcola in centinaia di milioni di euro. Per non parlare poi delle gare d’appalto, bloccate da anni. Una gestione tanto apertamente in contrasto con le leggi italiane, da sembrare inverosimile.

Consolato Campolo aveva trovato il modo di ricostruire questi flussi di denaro pubblico, con l’intenzione di segnalare alla Procura ogni anomalia gestionale. Morì prima di riuscire a portare a termine il proprio compito; l’incarico, dopo di lui, rimase vacante.

Circostanze sospette

La sera del 25 settembre 2018 Consolato Campolo, al ritorno da una cena al ristorante, inizia ad avvertire dolori alla testa e alla mascella. Durante il ricovero gli vengono effettuati tutti gli esami del caso: le analisi sono impeccabili, anche l’elettrocardiogramma non presenta anomalie. A quel punto, il paziente inizia a “vomitare nero”, come testimonierà la compagna. Ma i membri dello staff medico non sembrano tener conto di questo sintomo così particolare; anzi, intervistati da Le Iene pochi mesi dopo, dichiareranno di non esserne stati informati dal paziente.

Dopo un apparente miglioramento, Campolo muore in tarda notte per arresto cardiaco. Un decesso che suscita la perplessità dei dottori: com’è possibile che l’elettrocardiogramma precedentemente effettuato fosse negativo? L’esame, guarda caso, scomparirà presto dalla cartella clinica.

Tra i parenti e i collaboratori di Consolo si insinua il sospetto. Il figlio chiede se sia stato eseguito un esame tossicologico. Il collega Vincenzo Ferrari e l’ex commissario dell’azienda sanitaria Massimo Scura (ideatore della task force) parlano di possibile avvelenamento e lamentano la mancanza di un’autopsia giudiziaria. Si inizierà a valutare concretamente l’opportunità di una riesumazione solo un anno più tardi, quando ormai le possibilità di trovare tracce di sostanze tossiche sono minime.

“Non essere così efficace”

D’altronde, stando alle dichiarazioni dei suoi ex colleghi, Consolato Campolo aveva ricevuto in più occasioni minacce e intimidazioni. Il dirigente si mostrava inoltre piuttosto sfiduciato nei confronti dei rappresentanti dell’azienda sanitaria calabrese, al punto da rifiutare qualsiasi loro aiuto nel delicato processo di indagine. Qualcuno gli avrebbe addirittura consigliato di “non essere così efficace” nel compiere il proprio lavoro. Tutto inutile: Campolo avrebbe portato avanti la sua missione fino all’ultimo respiro.

Le mani della criminalità organizzata sulla sanità calabrese

Pochi mesi dopo la morte di Consolato Campolo, l’ASP Reggio Calabria fu sciolta per infiltrazioni mafiose. È solo l’ultimo capitolo di una storia iniziata nel 2010, quando la sanità calabrese venne commissariata in seguito all’emergere di bilanci truccati e infiltrazioni da parte dell’ndrangheta. Da allora, la situazione non è migliorata.

Ha fatto un certo scalpore la recente decisione del governo di inserire anche la Calabria nell’elenco delle zone rosse per la gestione della seconda ondata di Covid. La regione infatti vanta un numero di contagi tutto sommato ridotto: 100 positivi ogni 100mila abitanti, a fronte ad esempio dei 500 di Lombardia e Piemonte. È evidente quindi che la decisione del governo sia scaturita da altri fattori. Il sistema sanitario calabrese è considerato inadeguato al contenimento dell’emergenza in atto, soprattutto a causa dell’insufficienza di posti in terapia intensiva (nonostante lo stanziamento di 65 milioni attuato la scorsa primavera tramite il decreto Rilancio).

Al centro dello scandalo il commissario Saverio Cotticelli, costretto a rassegnare le dimissioni dopo aver ammesso in un’intervista di non sapere nulla del piano di riorganizzazione della terapia intensiva; anzi, di essere convinto che quella mansione spettasse al presidente della Giunta regionale.

Dieci anni di commissariamento non sono quindi serviti a estirpare criminalità e cattiva gestione dalla sanità calabra. In questi giorni difficili, molti cittadini calabresi hanno ricordato con affetto la figura di Campolo sulle loro pagine social: l’uomo del cambiamento, portato via troppo presto alla sua terra. Manifestando, tra l’altro, ulteriori dubbi e sospetti sulla natura della sua fine.

Solo sospetti, certo, e nessuna prova. La morte di Consolato Campolo, servitore dello Stato, resterà probabilmente un mistero. Ma non sono un mistero né la cattiva gestione ospedaliera né le ingerenze mafiose nella sanità: inutile stupirsene ora, nel bel mezzo di una pandemia.

Elena Brizio

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