La Repubblica Democratica del Congo (RDC) ha recentemente intrapreso un’azione legale contro le sussidiarie francesi e belghe della multinazionale tecnologica Apple, accusandole di essere coinvolte nell’approvvigionamento di minerali estratti da miniere illegali. La causa, intentata dal Ministero della Giustizia congolese, evidenzia un caso complesso di sfruttamento prerogative che ricordano l’epoca del colonialismo. L’iniziativa legale sembra essere stata guidata dalla volontà di sfruttare normative favorevoli presenti i questi due Paesi.
Il cuore delle accuse ruota attorno al traffico illegale di minerali vitali per l’industria tecnologica globale: il Congo è infatti una delle principali fonti mondiali di minerali come il tungsteno, il cobalto, lo stagno e il tantalio, che sono fondamentali per la produzione di dispositivi elettronici. Tuttavia, molte delle miniere congolesi sono gestite da gruppi armati o entità non autorizzate, con pratiche che spesso violano i diritti umani e le leggi locali. Nonostante gli sforzi per regolamentare l’industria mineraria, l’RDC continua a fare i conti con un mercato minerario non trasparente e ad alto rischio.
Le autorità congolesi affermano che Apple, attraverso le sue filiali in Francia e Belgio, avrebbe continuato a rifornirsi di minerali provenienti da queste fonti problematiche, violando non solo le leggi locali ma anche le normative internazionali che richiedono alle aziende di garantire che le loro forniture siano libere da conflitti e sfruttamento illegale. La RDC, infatti, ha invocato diverse convenzioni internazionali che obbligano le multinazionali a monitorare la catena di approvvigionamento e a non finanziare gruppi armati attraverso l’acquisto di risorse minerarie.
La scelta di concentrarsi sulle filiali in Francia e Belgio non è casuale. Entrambi i Paesi, infatti, sono noti per la loro legislazione più favorevole alla causa: in particolare, la Francia ha adottato una legge che impone alle grandi aziende di garantire che le loro attività non alimentino conflitti o violazioni dei diritti umani, soprattutto nei paesi africani. La legislazione belga, invece, in materia di diritto commerciale e internazionale potrebbe facilitare il processo legale, rendendo più agevole per le autorità congolesi ottenere il risarcimento dei danni e l’individuazione di eventuali responsabilità legali delle filiali di Apple.
Nel merito della disputa legale
Nel documento ufficiale da poco rilasciato, il governo di Kinshasa ha dichiarato:
«Ad aprile 2024, gli avvocati che rappresentano la RDC hanno chiesto al CEO di Apple, Tim Cook, così come alle filiali di Apple in Francia e Belgio, di rispondere a una serie di domande dettagliate riguardo alla possibile contaminazione della catena di approvvigionamento dell’azienda da “minerali insanguinati” provenienti dal Paese. Apple non ha fornito alcuna risposta sostanziale alle domande.»
Apple, dal canto suo, ha sempre dichiarato di essere impegnata a garantire la trasparenza della sua catena di approvvigionamento e di monitorare da vicino le proprie fonti: la compagnia ha affermato a più riprese di aver adottato rigorosi standard etici per evitare che i suoi prodotti siano associati a situazioni di conflitto o sfruttamento. Tuttavia, l’azione legale intentata dalla perla dell’Africa centrale suggerisce che ci siano gravi lacune in questi sforzi e instaura dubbi sulla reale efficacia delle politiche aziendali di Apple.
Inoltre, nel mese scorso il colosso tecnologico ha presentato alla Securities and Exchange Commission (SEC) degli Stati Uniti i risultati di un audit indipendente condotto sui suoi fornitori dei minerali T3, rivelando che ben 14 fonderie e raffinerie presenti nella sua catena di approvvigionamento sono state escluse per non aver soddisfatto i criteri richiesti.
A questo si aggiungerebbe il coinvolgimento del Rwanda, che lo scorso anno ha esportato una quantità di coltan superiore a quella del Congo nonostante possieda riserve molto inferiori rispetto al suo vicino. Questo dato solleva interrogativi sulle reali origini del coltan esportato dal Rwanda, il quale potrebbe provenire dalle zone della RDC contese o sotto il controllo di gruppi armati. A confermare questa ipotesi è un rapporto di Enact, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea che coinvolge diverse organizzazioni internazionali.
Apple è stata inoltre accusata di avvalersi di una rete di fornitori che acquistano minerali provenienti dal Rwanda, senza garantire una verifica adeguata dell’origine dei minerali utilizzati nella produzione dei suoi dispositivi.
Tra sfruttamento di risorse, tecnologia ed erosione dei diritti dei lavoratori: una nuova forma di colonialismo
La causa legale solleva innanzitutto interrogativi più ampi sulle responsabilità delle multinazionali tecnologiche nei confronti delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo: mentre con la globalizzazione la domanda di dispositivi elettronici è in costante crescita, diventa sempre più urgente per le aziende garantire che la loro supply chain non sia alimentata da pratiche illegali o dannose.
Molti milionari noti si sono arricchiti proprio sfruttando i lavoratori già vulnerabili di molti Paesi africani, che spesso hanno pagato col sangue: è il caso di Elon Musk, la cui ricchezza deriva notoriamente dalle miniere di diamanti di Zambia, Sudafrica e la stessa RDC, i cui profitti sono stati poi reinvestiti in Tesla.
Le implicazioni morali ed etiche della vicenda riguardano ovviamente anche la tutela dei diritti umani, troppo spesso messa in ombra dagli interessi economici: la pressione pubblica e le aspettative delle società civili stanno crescendo, spingendo per una maggiore accountability da parte delle aziende e per ottenere giustizia per le vittime del business dei “minerali insanguinati”.
Una mossa politica?
Quella dello sfruttamento delle miniere da parte delle multinazionali occidentali è ormai una pratica nota da tempo e oggetto di numerosi report e denunce da parte delle ONG che operano in questi luoghi. Il Congo ha deciso di procedere solo ora forse a causa delle crescenti tensioni con il Rwanda e del forte sentimento anti-ruandese presente tra la popolazione.
Infatti, il Movimento 23 Marzo (M23) sta penetrando sempre di più all’interno del territorio congolese con il sostegno militare del Rwanda, accusata di contribuire al clima di insicurezza del Paese con la sua presenza quasi trentennale nella RDC.
Questo caso potrebbe dunque aprire la strada a un cambiamento significativo nelle normative internazionali, costringendo le imprese a rivedere i propri metodi di approvvigionamento e ad implementare controlli più severi sulle risorse estratte in Paesi a rischio.
Molto probabilmente Apple continuerà a negare le accuse ma la strategia degli avvocati della RDC che poggia sulla legislazione favorevole di Francia e Belgio potrebbe rappresentare una scelta vittoriosa.
Si spera che i futuri sviluppi della vicenda possano mettere fine a una spirale di violenza e abusi che va ormai avanti da troppo tempo, restaurando gli equilibri internazionali.