Conflitto Israele-Palestina: una riflessione critica contro la radicalizzazione del dibattito pubblico

conflitto Israele-Palestina La guerra dell'acqua in Palestina

La descrizione del conflitto Israele-Palestina sostiene la sete di vendetta di Israele e le ritorsioni violente, spesso a scapito di civili innocenti e indifesi. Questo racconto giustifica gli attacchi contro aree altamente popolate come campi profughi abitati da persone già private di tutto. Un’adeguata narrazione della situazione in Medio Oriente dovrebbe tenere conto del fatto che la storia non si ripete mai identicamente, e che i ruoli di vittime e carnefici possono variare o invertirsi.


Il 7 ottobre 2023 l’opinione pubblica internazionale si è ritrovata catapultata davanti ad un atto di violenza inaudita: un commando di miliziani di Hamas fa irruzione nel bel mezzo di un festival musicale, al confine con la striscia di Gaza, assassinando un gran numero di giovani.

Un atto criminale, un fatto che sconvolge per la sua ferocia sbattendo in faccia orrori che molti forse avrebbero preferito continuare ad ignorare.

Posto che trucidare 10 o 1000 persone sia un crimine deprecabile.

Posto che ogni crimine commesso con l’intenzione di togliere la vita a un numero potenzialmente elevato di innocenti, generando disperazione e terrore, sia configurabile come terrorismo.

Posto che tutti siamo d’accordo che il terrorismo, sotto qualsiasi forma, e chiunque sia l’artefice, vada contrastato.

Posto che il diritto di resistenza all’oppressione debba essere distinto dalla violenza terroristica fine a sé stessa, cieca e indiscriminata.

Posto che attaccare per vendetta e rappresaglia i civili inermi e disarmati sia un atto brutale e imperdonabile.

Si può sostenere che i crimini di Hamas, per quanto crudeli, vadano inseriti in un contesto di perenne belligeranza di cui è responsabile nonché parte in causa lo Stato d’Israele?

Possiamo anche discutere sul confine tra resistenza e atti terroristici in quanto indirizzati verso civili innocenti, ma resta fermo il fatto che lo stesso metro di misura che porta a condannare i crimini di guerra di Hamas vada applicato anche alla brutalità delle rappresaglie di Israele.

Quindi, muovendo da queste premesse, nei pubblici dibattiti è possibile deprecare le azioni criminali di Hamas senza limitarsi a forzare parallelismi semplicistici con l’Isis o con le aggressioni militari perpetrate dalla Russia di Putin, come se ci fosse un parametro standard valido per tutte le guerre?

Semplicemente per una ragione: ogni contesto storico e geopolitico implica proprie cause indipendenti, dunque per amore della verità occorre incamminarsi per la strada impervia dell’analisi critica, non condizionata dall’emotività, che seppure comprensibile, non rappresenta la via migliore per avvicinarsi alla realtà.

Il punto di partenza di questa analisi è la comprensione del contesto in cui Hamas ha potuto radicarsi nel corso degli anni

Hamas è un’organizzazione politica e paramilitare fondamentalista islamica, confinata nella striscia di Gaza, dove prese il potere nel 2006, giocando bene le carte dell’odio e del risentimento popolare contro la politica oppressiva dello Stato d’Israele e presentandosi come forza in grado di incarnare la resistenza e strumento di liberazione e riscatto.

Nel 2007, appena un anno dopo, contestualmente all’ascesa al potere di Hamas, Israele impose su Gaza un blocco, ossia il controllo arbitrario sullo spazio aereo, le acque territoriali, i passaggi di confine e le infrastrutture civili palestinesi, rendendo impossibile l’afflusso anche di beni di prima necessità.

Questa decisione politica fu motivata sulla base della sicurezza nazionale: contrastare il lancio di razzi dalla striscia di Gaza e impedire ad Hamas di rifornirsi di armi. Sottrarre beni primari ha accresciuto il senso di oppressione e frustrazione della popolazione già esasperata dalle condotte politiche repressive israeliane.

Israele, nonostante i continui richiami dell’Onu ha continuato, incurante delle conseguenze, a portare avanti una politica coloniale ai danni degli autoctoni arabi.

Accenni storici

A partire dagli anni che precedettero la proclamazione unilaterale dello stato d’Israele, nel maggio del 1948, i coloni sionisti giunti principalmente dall‘Europa orientale nei territori palestinesi facenti parte del mandato britannico, ricevendo carta bianca dai britannici, avviarono una politica coloniale finalizzata ad estromettere gli autoctoni e prendere il loro posto. Una tattica proficua fu quella di acquistare a basso costo le terre dei contadini impoveriti a causa della crisi economica e della carestia, per poi discriminarli ed escluderli dal lavoro nei campi e dalla possibilità di subaffitto dei terreni.

La popolazione autoctona si ritrovò senza alcuna fonte di sostentamento, i sionisti avevano approfittato del disagio economico per poter insediarsi senza avere tra i piedi gli arabi, gettando così le basi dello stato ebraico.

Dal 1948 ad oggi, la storia dei rapporti tra Israele e Palestina sono stati costellati da un continuum di soprusi, privazioni e ingiustizie, posti in essere dallo stato israeliano contro il popolo palestinese.

Come emerge dai report dell’Onu, tali condotte repressive sono in particolare: la destinazione dei terreni ad uso esclusivo dei coloni israeliani, sfruttamento illegale delle risorse, sgomberi forzati, requisizioni di case e campi palestinesi, demolizioni sistematiche con l’intento di lasciare spazio a nuovi insediamenti coloniali.

Il popolo palestinese fu spodestato e sradicato dalle proprie terre, costretto a vivere accampato in campi profughi di fortuna, divenuti poi villaggi.

L’Onu, a più riprese ha condannato il sistema di dominazione, repressione e segregazione, messo in atto da Israele, considerandolo un ostacolo al raggiungimento della pace.

Nonostante gli accordi di Oslo del 1993 prevedessero la restituzione progressiva delle terre occupate dai coloni israeliani, Israele continua ancora oggi ad ampliare i territori sotto il suo controllo intensificando la pratica degli sgomberi e dei trasferimenti forzati dei palestinesi, e venendo quindi meno ad ogni possibilità d’incontro e compromesso.

Ma vediamo nello specifico i richiami dell’Onu

Nel 2017 il Segretario generale dell’ONU Gutierres espresse preoccupazione per i trasferimenti forzati dei cosiddetti Dkaika, pastori e beduini palestinesi, pianificati da Israele nei villaggi di Massafar Yatta, inoltre le ONG israeliane Peace now e Ir Amin denunciarono lo sfratto di circa 55 famiglie palestinesi nel 2015-2016 nella Città Vecchia di Gerusalemme est.

Sui palestinesi in Cisgiordania gravano pesanti restrizioni per quanto riguarda la circolazione di merci e persone, imposte da Israele con la motivazione della salvaguardia della sicurezza nazionale. Misure restrittive come posti di blocco e limitazioni d’accesso a terreni agricoli, risorse naturali, servizi essenziali, quali l’istruzione pubblica e l’assistenza medica relegano i palestinesi a condizioni di grave povertà ed emarginazione sociale, per citare lo stesso esempio dell’ONU, se i coloni israeliani hanno accesso quotidianamente a circa 320 litri d’acqua al giorno, i palestinesi hanno diritto dai 100 ai 50 litri d’acqua al giorno.

Le raccomandazioni degli stati membri dell’ONU riguardavano la cessazione dell’occupazione dei territori palestinesi, nonché della pratica degli sgomberi forzati e della detenzione amministrativa, soprattutto di minorenni, l’eliminazione delle restrizioni della libertà di movimento che ostacolano il ricongiungimento familiare tra gli abitanti di Gerusalemme est e quelli di altre aree della Cisgiordania, la fine del blocco sociale ed economico su Gaza per consentire ai palestinesi l’accesso a risorse e beni essenziali, lo smantellamento del sistema di leggi atte a favorire pratiche di discriminazione e ghettizzazione della popolazione palestinese.

A partire dal 13 aprile 2021, contestualmente allo scoppio degli scontri di Al Aqsa, l’ONU avvia delle indagini volte ad appurare violazioni in tutti i territori palestinesi occupati da Israele.

Le indagini in questione vengono accolte con favore da Palestina, Egitto (il quale confina con la striscia di Gaza attraverso il Valico di Rafah) e regno di Giordania. Israele invece non si mostra disponibile alla cooperazione, un anno prima infatti, il ministro degli esteri israeliano aveva preso le distanze dalla risoluzione S-30/1 che mirava all’applicazione della Convenzione di Ginevra al fine di garantire protezione ai civili nei territori palestinesi.

Radicalizzazione del dibattito nel conflitto Conflitto Israele-Palestina

Il dibattito pubblico oggi sembra escludere qualsiasi considerazione che miri a riflettere sulla violenza legalizzata da parte dello Stato d’Israele, sullo stato d’occupazione belligerante che si protrae dalla fine della guerra dei sei giorni nel 1967, sulle gravi violazioni dei diritti umani.

Chiunque cerchi di comprendere, e far comprendere, il contesto dove l’estremismo di Hamas ha potuto attecchire facilmente, viene immediatamente bollato come un potenziale antisemita e nazista, finendo così per appiattire il dibattito su una modalità di ragionamento manichea: dalla parte di Israele, tacendo o ignorando la sua politica esasperatamente nazionalista, oppure dalla parte dell’estremismo di Hamas.

Ammettere che il nazismo può manifestarsi nel volto e nelle forme del nazionalismo esasperato, del razzismo più o meno esplicito e in ogni sistema coloniale oppressivo e segregazionista, è oggi un autentico atto di coraggio. Ripudiare il nazismo significa condannare tutte le manifestazioni in cui esso si ripresenta nella storia, anche quando è scomodo farlo, anche quando a metterlo in atto sono le stesse vittime che lo hanno subito.

È possibile affermare con serenità, senza incorrere nell’accusa di antisemitismo, che il cuore del problema è rappresentato dal nazionalismo esasperato che regna sovrano da entrambe le parti?

Hamas vuole cancellare lo Stato d’Israele, ma non dimentichiamo che anche il governo israeliano, e specialmente le frange ultra nazionaliste, affatto isolate ma nella posizione di poter esercitare un peso notevole sulle decisioni politiche di Netanyahu, premono per una soluzione estrema che non preveda nessuna possibilità di coesistenza e convivenza con il popolo palestinese.

È l’esasperazione di ogni ideologia, azione e reazione che perpetua questo stato di belligeranza dove è l’umanità ad essere sconfitta.

Ma Hamas è un movimento estremista islamico, considerato gruppo terroristico da molti paesi occidentali, Israele è riconosciuto invece da USA ed Ue come uno stato democratico.

La narrazione tristemente dominante legittima il desiderio funesto di vendetta d’Israele e le violente rappresaglie anche quando sacrificano civili inermi e incolpevoli, giustifica i bombardamenti contro luoghi densamente popolati, come mercati e campi profughi abitati da povera gente che non ha nemmeno di che nutrirsi.

Ed è così che la dignità umana diventa sacrificabile in nome della ragione di stato, di interessi superiori, di ideologie, e si replicano gli stessi errori del passato: si disumanizza un popolo per poter così ignorare a cuor leggero, senza scrupoli di coscienza, la sofferenza patita, il sangue versato e il dolore inflitto.

La storia non si ripete mai allo stesso modo, le vittime e i carnefici possono cambiare o invertirsi i ruoli.

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