È apparsa su Repubblica in questi giorni un’intervista a Eugenio Albamonte, neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati che, riassunto brutalmente, lamenta come i condannati possano entrare in Parlamento mentre ai magistrati si ostacolerebbe questa possibilità.




Fatta premessa che in una democrazia degna di questo nome, o almeno nelle intenzioni dei padri costituenti, il potere politico e quello giudiziario dovrebbero rimanere ben distinti, è curioso come negli anni la parola “condannato” abbia sempre più spesso come diretta conseguenza la crocifissione di chi ha la fedina penale sporca, imprigionandolo nella gabbia di valori moralmente negativi e ripugnanti.D’altronde la prima crociata dei cinque stelle è partita proprio con un bel «Vaffa…!» ai condannati alle camere raccogliendo i malumori di un Paese stanco di vent’anni di berlusconismo. E oggi ne raccolgono i frutti.




Dimenticano i pentastellati e tanti paladini della giustizia, però, che condannata fu l’afroamericana Rosa Parks per essersi seduta sui seggiolini del bus riservati ai soli bianchi. Le fanno compagnia, nell’olimpo dei peccatori legali, ospiti speciali: da Gesù a Gandhi, passando per i partigiani e Martin Luther King. E tanti altri.Ogni condanna è una storia a sé e a volte può essere solo l’imposizione del pensiero dominante sull’individuo.

Siano giustificati i grillini, spesso inclini a sparare nel mucchio, prendendo chi capita.

Meno tollerante, a mio avviso, che un magistrato si riduca ad una grossolana divisione bianco-nerista della questione facendo leva sul sentimento popolare, sempre più incline all’animo forcaiolo.

Anche perché a ben vedere, da Barabba a Robespierre, non sempre la pancia della plebe si nutre di pane e giustizia.