“… però vogliamo leggercelo un attimo il quesito che c’è sulla scheda del referendum? Anche perché i 5 Stelle hanno fatto ricorso al Tar per il testo della scheda. […]
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»
Si o no?
Dunque, messa così, in effetti, se uno la legge bene, la domanda un po’ tendenziosa lo è. Chi non è d’accordo sul ridurre il numero dei parlamentari? Sul contenere i costi della politica? E figurati, ci ho fatto 5000 monologhi, potrebbero darmi i diritti d’autore. Cioè, da un punto di vista legale il quesito sarà pure ineccepibile, però la domanda trae in inganno.
Ora, immaginatevi se tutti i referendum di questo Paese li avessero scritti con questo stile.
Prendi il primo:
Monarchia contro Repubblica del ‘46
«Approvate la Repubblica, oppure volete tenervi quel nanetto di Re che s’è alleato con Hitler?»
E questo per il divorzio! Guardate il divorzio!
«Vuoi distruggere la tua famiglia per un capriccio, tanto sono tutte stronze… non è che vai a migliorare… oppure vuoi tornare a casa dai tuoi figli piccoli che piangono e chiedono di papà?»
Cioè, chi è che mette la croce su PORCO? È vero o no?
Ora, una cosa è certa, che da qui a dicembre in realtà potrebbe cambiare tutto. Pensate cosa potrebbe succedere se vincessero contemporaneamente Trump alle elezioni americane e il SI al referendum italiano.
Perché da un lato la vittoria di un pazzo egocentrico che odia la democrazia e dall’altra Donald Trump presidente degli Stati Uniti.
No (risata generale), sto scherzando. Renzi non odia la democrazia, figuriamoci. Diciamo che se può, la evita. E anche la democrazia non è che ci tenga tanto a far amicizia con Renzi.
Io sono molto confuso ragazzi. Ma mica solo io. Diciamo che sul nostro referendum è confuso tutto il mondo. Guardate qua:
Referendum, ambasciatore USA:
«Se vince il no, passo indietro e addio investimenti.»
Gli americani ci dicono di votare SI. Poi senti gli inglesi e ci dicono di votare NO. Poi c’è il Financial Times. Mi fai vedere il Financial Times?
«Le riforme costituzionali di Renzi sono un ponte verso il nulla.»
Senti come suona cupo “bridge to nowhere”, sembra un libro di Stephen King!
Quindi al momento abbiamo due ponti in ballo: uno va verso Messina e l’altro va verso il nulla.
Speriamo solo che quello verso il nulla costi un po’ di meno!
Insomma a chi dobbiamo credere? All’ambasciatore americano, al Financial Times, a Renzi, a Zagrebelsky? Cosa dobbiamo votare? Una volta era semplice! Chiedevi cosa votava D’Alema votavi il contrario e andavi sul sicuro: facevi il bene del tuo Paese comunque. Ora è più complicato non ci sono più riferimenti. Zagrebelsky vota come Salvini, Benigni vota come Denis Verdini, L’Anpi vota come Casa Pound. Capite? L’Anpi vota come Casa Pound! Partigiani e fascisti insieme. L’ultima volta che ho visto far qualcosa a partigiani e fascisti insieme, i fascisti erano capovolti!
Ora, la situazione non è chiarissima, dai, e infatti gli indecisi sono ancora tantissimi! […]
Renzi infatti è un po’ in paranoia.
«Renzi: Ho sbagliato a personalizzare la riforma.»
E bravo Renzi, infatti da quando non personalizza più, è in tv ogni giorno. EVERYDAY! ANYWHERE, BUT EVERYDAY! È andato da Vespa, dalla Gruber, da Del Debbio, da Mentana… è andato da TIKI TAKA! A TIKI TAKA?! È andato ovunque! Cioè, in confronto a Renzi, Berlusconi era Mina! […]
Però io Renzi un po’ lo capisco, perché se vince il no rischia grosso. E l’ha ribadito anche ieri, no?
«Renzi: Se perdo, cambio mestiere.»
Matteo, dà retta a un cretino: tienitelo stretto quel lavoro lì, che col JOBS ACT non è mica detto che ne trovi un altro.
A me Renzi fa un po’ di tenerezza. Perché lui vorrebbe tagliare i costi della politica, no? Però Matteo, scusami, guardami un attimo. Con questo referendum vuoi tagliare i costi della politica e poi hai speso 400.000 euro per un consulente americano che ti faccia vincere il referendum.
«Referendum, Jim Messina pagato 400 mila euro dal PD per la campagna per il Si.»
Capite che è come se uno per risparmiare sul gas della bombola, va a mangiare tutti i giorni da Cracco? È vero no, sono soldi spesi bene però, perché Jim Messina, che è un consulente d’immagine… […]”
Crozza nel Paese delle Meraviglie, 07/10/2016
La domanda sorge spontanea, perché riportare questo lungo monologo sul referendum del prossimo 4 dicembre?
Vedete, nell’analizzare le metodologie della comunicazione e persuasione politica, parto dalla personale convinzione che dove i tecnici non arrivano, a furia di paroloni e frasi incomprensibili ai più (esempio palese dato dal confronto tra Renzi e Zagrebelsky), la satira invece vince.
E come vince la satira? E perché i tecnici non lo fanno con le loro molteplici esperienze e l’indiscutibile formazione? Il problema sta nella comunicazione. E alle persone piace la semplicità. Ma soprattutto l’ironia. E allora un presidente che può dire una cosa più impegnata semplificandola, magari facendo anche dell’ironia, ha un potenziale mediatico indiscusso, nonché una presa più solida sull’opinione pubblica.
E noi, che siamo i destinatari di quei messaggi criptati, amiamo la semplicità. La comprensione. Amiamo l’enfasi, ma soprattutto ci piace che qualcuno si metta al nostro posto, faccia suo il nostro linguaggio e lo utilizzi per comunicare.
È così che si crea il vincolo di fiducia tra l’elettore e il politico in vista, un processo inconscio e pericoloso, che ci porta ad avvicinarci a chi con noi sa parlare. Che si preoccupi in qualche modo di farsi capire. E non conta l’affidabilità, la verità. In poche parole, pur non accorgendocene, non conta il senso. Conta la percezione: quanto io rivedo te in me.
Manuel Castells, professore di Sociologia (Tecnologia della Comunicazione e società alla University of Southern California) e direttore dell’Internet Interdisciplinary Institute della Universidad Oberta de Catalunya, Barcellona, ne ha studiato le dinamiche raccogliendole all’interno di un testo dal titolo, non a caso, Comunicazione e Potere.
Questi, a partire dalla definizione di potere quale “processo più fondamentale nella società”, spiega come questo si lega e si esprime nella comunicazione, citando eventi noti a tutti, come la campagna di sensibilizzazione per la guerra in Iraq, e mostrando come la politica sia oggi in tutto e per tutto mediatica.
Ma cosa è la politica mediatica? Banalmente, quella che si serve dei mezzi di comunicazione di massa. Quindi l’immagine, la rete, i giornali. E la politica mediatica si esprime attraverso la propaganda, la quale, il più delle volte, è mistificazione pura della realtà. Ergo, si serve di situazioni, eventi, particolari condizioni per avvalorare tesi e creare quel vincolo di fiducia che sta alla base dell’elezione.
Vogliamo fare un esempio? L’immigrazione, che oggi è percepito quale problema globale, tanto da mettere in dura crisi le trattative internazionali fin’ora realizzate.
L’immigrazione è sempre esistita. Ma la percezione di questa quale grande problema di massa è pura speculazione politica. Perché? Provate a guardare cosa faceva lo stato per voi vent’anni fa e cosa fa oggi. La differenza, noterete, essere minima. Gli immigrati rubano il lavoro? Beh, in una società globale in cui un’azienda ha la possibilità di scegliere il migliore candidato, il problema è la formazione. Vince semplicemente chi mette insieme una formazione verticale efficiente fusa a delle capacità trasversali delineate: bisogna sapersi vendere. E quindi un ingegnere valido, un medico competente, un economista che ha buone capacità di analisi l’ha facilmente vinta su un fannullone.
Da lì la discutibile decisione del Ministero degli Interni inglese di chiedere alle aziende le liste dei lavoratori stranieri. Il liberista e fondato sull’economia Regno Unito secondo voi caccerà lavoratori stranieri efficienti? Rischiando così che un sistema fin’ora all’avanguardia crolli? Perché tradotto in altre parole vorrebbe dire “che schifo la crescita economica, che schifo i soldi”. Per l’appunto, politica mediatica.
Il nostro problema, il vizio della nostra società, è quello di non saper affrontare con cinismo le situazioni di fronte alle quali ci ritroviamo. Amiamo rifugiarci nella faziosità. Per la stessa motivazione per cui è più comodo sfogarsi con un amico che ci dà ragione, piuttosto che con un genitore che ci rimprovera.
Ma sapete qual è rischio di questo gioco a somma zero? Rimanere intrappolati in una situazione di merda.
Lo vediamo con occhi esterni da Trump. Quel carisma sfacciato, talvolta volgare, è comprensibile. La gente sa di cosa si parla. La questione di stato e le dinamiche interne ed estere della Clinton sono parole piatte al confronto e coglierne l’essenza è così elaborato da disincentivare qualsivoglia comune cittadino.
E in Italia?
Forse in questo momento il vero problema è riuscire a cogliere il senso in mezzo alla miriade di battaglie politiche e mediatiche che fanno da sfondo a un problema ben più grande e che molti non hanno colto: il futuro del nostro Paese. E qualsiasi cosa gli addetti al settore vogliano dire per perorare la propria causa, il fine ultimo e che spetta a noi e noi soltanto, è decidere in che Paese vogliamo vivere: uno stato sociale di democrazia veramente rappresentativa o uno stato liberale a rappresentanza dubbia.
Da qui arriviamo al Referendum Costituzionale, fonte di scontro, argomento particolarmente caldo, pronto a far scattare la suscettibilità dei più.
Parlare di referendum, non è semplice. Sono tanti gli argomenti contenuti all’interno della riforma che il fatto stesso che siano stati messi tutti insieme, rappresenta dì per sé un campanello d’allarme.
Tutti parlano di senato. Ad infinitum. Una camera il cui rischio di deriva autoritaria è testimoniato da più e più fattori e, superando la questione della rappresentanza, mi concentrerei per lo più sul ruolo della minoranza.
Mettiamola così, considerate una partita di calcio. Mettiamo che la squadra X, che rappresenta la maggioranza di governo (e la riforma garantirà la presenza di una maggioranza, limitando il rischio di instabilità) incontri la squadra Y, che rappresenta la minoranza. Ora, pensate che la squadra X decida modulo di gioco, formazione ed ogni singolo dettaglio della squadra Y. Il risultato qual è? Una partita fasulla. Un incontro inutile. Tanto vale sottoscrivere la vittoria a tavolino della squadra X.
E cosa significa questo? Che se la maggioranza scrive lo statuto della minoranza, tanto vale che ci sia un partito unico e che la parola democrazia scompaia dall’immaginario comune.
Passiamo alla sanità, altra parte che sarà oggetto di decisione il prossimo 4 dicembre, perché non si voterà solo per il senato. Mi rivolgo a chi non ha un ospedale nelle immediate vicinanze, ma non solo, anche a chi si avvale del servizio delle ASL per la facilità di fruizione. La riforma prevede la limitazione/eliminazione del servizio.
E sì, parlare di morte del diritto alla salute è un’esagerazione, se non fosse che gli ospedali sono pieni, il rinnovamento dell’organico o il suo ampliamento manco a parlarne e già nella condizione attuale, curarsi, sta diventando un lusso che esclude chi non ha le risorse per ricorre ad un privato.
Il che vuol dire che i costi diminuiscono per lo stato, non per il cittadino che dovrà provvedere con più difficoltà alla sua cura e ricorrendo, con spese maggiori, molto più spesso al privato.
Come se, ad esempio, la maggior parte delle università pubbliche venissero chiuse. Il primo problema sarebbe il sovraffollamento delle strutture rimaste, ergo un crollo nella qualità dell’istruzione ricevuta. E molti si vedrebbero costretti a fare domanda per un’università privata, con la sola differenza che delle rette superiori ai 4.000/5.000 euro annui, che talvolta sfiorano i 25.000, non sono alla portata di tutti.
Il che significa avere un sistema in cui i servizi pubblici vengono mano a mano eliminati e, quanto di più banale abbiamo, diventa un lusso che pochi possono permettersi, che conduce a maggiore differenziazioni sociali. In soldoni, un sistema che ha una èlite di gente ricca e tanti poveri.
La demagogia politica è fine, furba e disgraziatamente sadica. Si serve delle debolezze e dimentica il bene comune. Distrugge le aspirazioni e una popolazione che non ha più la possibilità di sperare che un sogno diventi realtà, è senza futuro.
Io sono dell’idea che tutti debbano avere un futuro e credo che l’Italia, da Repubblica democratica, debba garantire un futuro, se davvero fondata sul lavoro. E credo che la sovranità appartenga al popolo, che abbia però il dovere e il diritto di esercitarla, oltre che nelle modalità previste dalla legge, senza essere preso in giro.
E credo che di fronte a una politica puramente mediatica, fatta di strategie discutibili, a noi rimane la possibilità di informarci, e scegliere in che posto vogliamo vivere. Perché la possibilità ce l’abbiamo.
Possiamo essere un gregge che ascolta delle parole verosimili, o, con dignità, cercare la verità e scegliere ciò che possa tutelarci al meglio.
La verità è una scelta, esattamente come il futuro. E arrivati a un bivio, non sarà un consiglio a salvarci, pensando e sperando che la persona di fronte a noi faccia il nostro bene.
Per me il #bastaunsi è #maancheNO.
Voi “Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma considerar virtute e conoscenza.”
Di Ilaria Piromalli