Comprensione e giustificazione

Comprensione e giustificazione

Comprendere e giustificare non sono soltanto due operazioni differenti, ma anche non poco distanti. Se il tentativo di comprensione, però, si appiattisce sulla presunta giustificazione dei fatti che si tentano di interpretare, si incorre in un esiziale cortocircuito. In tal caso, qualunque accenno di ricerca – risolto nella conseguente ed integrale condivisione dei fatti ricercati – rischierebbe di arenarsi. Con tutte le, più o meno gravi e gravose, conseguenze del caso. A scanso di equivoci, avendo a cuore l’impresa umana dello stare al mondo: comprensione non è necessariamente giustificazione.

L’esistenza umana, nella sua relazione con l’altro – che poi diventa società – si fonda anche sull’abitudine. Termine, quest’ultimo, che – derivando dal latino habitus – rimanda semanticamente al proprio modo di essere. Non pochi ingerenti sociologi, per delineare questo stato di cose – che, a loro modo di vedere, reggerebbe la società – ricorrono al termine routine. È interessante, anche in tal caso, ripercorrerne brevemente l’etimologia e, di conseguenza, approssimarsi alla comprensione dell’alveo semantico di riferimento. Routine deriva dal sostantivo inglese route, strada. E quale più eloquente immagine della strada si potrebbe impiegare per tentare di riflettere il senso dell’abitudine che sorregge la nostra esistenza? Si è costantemente chiamati a percorrere strade che divengono così familiari da poter essere attraversate automaticamente. In altre parole, tracciati così immediati e ovvi da non dover necessariamente soffermarsi criticamente sull’attraversamento degli stessi.

A scanso di equivoci: l’automatismo in questione risiede nella possibilità di percorrere formalmente un sentiero che inizia in un punto A e termina in un punto B, dando per scontato il fatto che lo si conosca così bene da non doversi addentrare in chissà quale dispendio di razionalità. Nell’attraversamento, poi, può accadere di tutto. E questo dipende anche dal grado di profondità, attenzione, sensibilità con il quale si è soliti abitare il mondo. Oltre che da un potenzialmente indefinito – qualitativo e quantitativo – intervento di fattori esterni.

ROUTINE E LIBERTÀ

Ma ciò accade anche in un’ulteriore, smisurata quantità di azioni che, quotidianamente, compiamo. Nel caso dei rapporti interpersonali – della relazione con l’altro – è abitudine consolidata, norma sociale, riconoscere e rispettare la reciproca libertà. Si tratta di uno schema comportamentale che, nella sua ripetizione – da ciò l’abitudine, la routine – si pone a tutela della libera società.

Ma se quest’ultima vuol essere tale, occorre un imperituro, costante e denso lavoro. Perché – e negli ultimi, tempestosi, tempi la cosa è emersa con una certa veemenza – spesso si incorre in atteggiamenti liberticidi socialmente normalizzati. E ciò accade a prescindere dal fatto che rimanga – e per fortuna – intatta la libertà prevista dalla Costituzione. Nonostante ciò, può accadere di ritrovarsi – da agenti o spettatori – in regioni di relativa oppressione, censura, demonizzazione dell’altro che pensa altrimenti. Soprattutto quando l’oggetto dibattuto, in quanto particolarmente complesso, risulta sfuggente, di difficile presa.

COMPLESSITÀ, DIALOGO, RICERCA

È di fondamentale importanza soffermarsi sulle zone grigie del reale perché è da ciò – la tutela della complessità del mondo – che dipende la serietà di ogni ricerca. La possibilità e la fondatezza di ogni dialogo. Governando, per quel che si può, preconcetti di qualsivoglia ordine: culturali, emotivi, congiunturali, strumentali, funzionali. La posta in gioco non risiede, di certo, in un epilogo che vede l’assegnazione di scettri di giustizia, bellezza, bontà. Ma nella tutela della complessità che, fondandoci e ricomprendendoci, ci definisce in quanto esseri umani.

L’arduo fardello del processo di comprensione – il cui peso si distribuisce tra spunti benedetti e spirali di dispersione – poggia sul difficile. E prendersi carico di quest’ultimo significa muoversi tra la solidità di rocciosi impianti valoriali e la dissacrante messa in discussione del sé e del mondo.

Se vogliamo che quest’operare sia libero, è necessario allora dare per assodato – come abitudine, routine – il reciproco rispetto che sta alla base di ogni confronto. È questo, e non altro, in prima battuta a costituire le condizioni d’esistenza del dialogo. Il riconoscimento del diritto di pensiero, parola, espressione del proprio interlocutore. Condizione che, ad oggi, viene sempre più a mancare in quei particolari casi in cui si assiste all’appiattimento della comprensione del reale sulla giustificazione della stessa da parte di chi la tenta. Da qui l’importanza del discernimento tra comprensione e giustificazione, volta alla tutela di una ricerca libera in una società libera.

SE LA COMPRENSIONE SI APPIATTISCE SULLA GIUSTIFICAZIONE

Dove la libertà si pone da sfondo di tutela alla complessità e, conseguentemente, a garanzia della molteplice ricchezza che ne può scaturire. Opprimere, infatti, i tentativi di interpretazione del reale sulla base di un indebito appiattimento della comprensione sulla giustificazione conduce ad un restringimento prospettico. E occorre tenere ben fermo un punto: tutto ciò accade, nella maggior parte dei casi, per presunte ragioni etico-valoriali. Il che, chiaramente, in linea di principio va benissimo, soprattutto perché, generalmente, il motivo etico si snoda su un filo di nobili intenti. Risulta pericoloso, però, quando si tenta di imporre un’etica data per assoluta – incardinata su un tappeto pregiudiziale – su tutto ciò che ne eccede il perimetro. Da qui il diffuso impianto manicheo che regola buona parte dei dibattiti dell’opinione pubblica. E tutte le conseguenze del caso.

Gli interlocutori diventano nemici da abbattere integralmente ed estromettere dalla piazza pubblica del discorso perché indegni. Le dispute si fanno corride di sanguinosi attacchi ad personam, piuttosto che teatri di confronto sui punti – caldi o meno – della questione discussa. Gerarchiche schiere di chi può esprimersi sui fatti e chi no, vengono decretate da una variopinta e cangiante commissione d’inchiesta a suon di tweet. Apparati di sistema scendono in campo – manovra concettualmente lecita, se ben fondata, documentata e argomentata – per colonizzare il mondo della vita. Nella maggior parte dei casi perché chi si cimenta nell’impresa mai del tutto solubile di comprendere i fatti, viene visto come un complice degli stessi quando questi sono poco digeribili.

COMPRENSIONE NON È GIUSTIFICAZIONE

L’abitudine, la routine, l’inalienabile sostrato socialmente accettato che è la libertà, inizia ad offuscarsi. E con questa, traballa la ricchezza sgorgante da un pensiero critico smussato, sbiadito, tarpato. Comprendere non è giustificare, è bene ricordarlo, ripeterlo, ribadirlo. E l’impresa della comprensione si configura come un itinerario a più livelli di profondità in cui, spesso, è necessario tentare di pensare l’altro dal punto di vista dell’altro. Riflettere la propria visione del mondo sull’oggetto analizzato per tentare di comprendere i motivi, gli scopi, gli obiettivi è un meccanismo, il più delle volte, destinato allo scacco. E non sono pochi i casi in cui – seppur indignati, lacerati, sconquassati – siamo stati in grado di accogliere con interesse ed apertura spunti di pensiero scomodi, sconcertanti, inenarrabili.




IL CASO ARENDT: LA BANALITÀ DEL MALE

È il caso di quel tentativo di comprensione – ma non, ovviamente, di giustificazione del reale – di Hannah Arendt che ha avuto il suo apice nella banalità del male. Quando, da reporter del The New Yorker, dopo aver assistito al processo Eichmann, la filosofa arrivò ad una inimmaginabile conclusione. I principali fautori dei crimini contro l’umanità avvenuti sotto il regime nazista, a suo dire, non apparivano come spietati esseri demoniaci. Ma si presentavano – almeno dal loro punto di vista – come tetri, metallici, ripugnanti burocrati. Meri e, tutto sommato, banali tecnici che non avrebbero fatto altro che portare a termine i propri compiti:

Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.

La Arendt, con questa icastica presa di posizione – inimmaginabile anche per lei, ai nastri di partenza – ha semplicemente tentato di accostarsi a quel tetro battito di mondo che, durante il processo, le ha parlato. E dal suo rapporto ha avuto scaturigine un ricco e molteplice movimento di pensiero che serba ancora oggi la sua potente viva voce. Sulla quale è necessario continuare a sostare.

SE HANNAH ARENDT SI FOSSE ESPRESSA OGGI?

Ragionando nei termini dell’equazione comprensione-giustificazione, non avremmo, dunque, dovuto condannare intellettualmente la Arendt? Come avrebbe mai potuto sostenere che il reale, in tal caso, si dava in quel modo? E che Eichmann e colleghi, non erano mica esseri spropositatamente mostruosi ed inusitatamente lontani dall’uomo comune? Eppure, al netto della condivisione o meno delle tesi della filosofa – questione, ancora oggi, aperta – continuiamo ad ascoltarne il messaggio. Nonostante la poca rassicurazione e la più totale impensabilità di ciò che ha raccontato – perché, a dirla tutta, è davvero arduo figurarsi Eichmann and Company nelle vesti dell’uomo comune.

Oggi, alla luce dei più recenti risvolti dei più scomodi eventi che stanno sconquassando la nostra quotidianità, come ci saremmo comportati con Hannah Arendt? Ad oggi, che il racconto che tenta di comprendere, di andare oltre i propri steccati pur non condividendone gli assunti, è criminalizzato? Oggi, che comprendere significa automaticamente giustificare, forse per sentirsi – in superficie – la fedina etica un po’ meno sporca? E in che misura, nel relazionarsi in modo liberticida al pensare altrimenti, si tutela il libero pensiero nel libero stato che tanto si propugna?

PROSPETTIVE ED ORIZZONTI

Interrogativi che siamo chiamati ad abitare. Non per lambire il nucleo delle verità assolute, che all’uomo non è dato comprendere. Ma per spingersi un po’ più in là della liscia superficie ed addentrarsi nei ruvidi anfratti di un mondo terribilmente e meravigliosamente complesso. E, così facendo, volgersi sulla sfera della prassi, pensare sintesi alternative a ciò che, almeno al momento, non sembra poter restituire risposte soddisfacenti. Insomma, fare qualche passo avanti nell’impresa umana dello stare al mondo. A partire dal modesto ma fondamentale presupposto che comprendere non significa giustificare.

Mattia Spanò

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