Recitava più o meno così una pubblicità qualche anno fa, e il costume italiano ha conservato l’antica usanza di veder sbocciare, ad ogni Europeo o Mondiale, uno stuolo di allenatori dalla Val d’Aosta alla Sicilia, pronti col fucile spianato a mettere al muro il commissario tecnico di turno (quello vero). È successo anche dopo Spagna-Italia, tre a zero senza appello e qualificazione al Mondiale che dovrà quasi certamente avvenire dalla porta secondaria dello spareggio.
A Ventura viene rimproverata l’inferiorità numerica a metà campo, ed è certamente un motivo valido, dove i soli Verratti e De Rossi non hanno retto l’urto della più devastante armata spagnola, e se mettere sulla graticola l’allenatore della nazionale è un gioco che si fa sin dalla notte dei tempi (chi pronosticava un fallimento nella spedizione del 1982 preceduta dal calcioscommesse in patria, il partito pro-Baggio degli anni ’90 o i più recenti fallimenti di Lippi-bis e Prandelli) ed è anche in parte ascrivibile alla passione e al seguito che suscitano palcoscenici del genere, è pur sempre grottesco che tale platea manifesti il proprio dissenso a fatti avvenuti.
Sicuro che i più attenti avranno constatato prima della partita questa inferiorità numerica in campo (a cosa servirebbero altrimenti le “probabili formazioni”?), di certo la maggior parte forse ha preferito puntare sull’ottimismo, sul non aver paura, sulla certezza di potersela giocare ad armi pari, con romantica illusione ma senza guardare tatticamente in faccia la realtà. Allora perché, gridare in difesa dei due “poveri” centrocampisti presi a schiaffoni per 90 minuti e chiedersi per quale motivo Ventura sia capitato su quella panchina, soltanto dopo il novantesimo? Sicuri che ci troviamo sempre nell’ambito dell’analisi di una gara appena conclusa o piuttosto in un gioco al massacro che era facilmente intuibile prima, date le enormi qualità spagnole e la fragilità di un’Italia volenterosa e orgogliosa in questi anni, ma pur sempre da troppo tempo lontano dalle big?
Ventura è su quella panchina perché probabilmente, al momento della sua scelta, era l’unico volto che potesse essere disponibile. Con Ancelotti impegnato in esperienze fuori dai confini, Allegri saldamente ancorato alla panchina della Juventus e Conte salito su un volo per l’Inghilterra, il buon gioco offerto dal suo Torino era l’unica alternativa possibile. Grande uomo di lungo corso del calcio italiano e persona squisita, Ventura tuttavia non rappresenta e forse non rappresenterà mai l’identikit di allenatore con cui l’Italia potrà togliersi parecchie soddisfazioni. Ma non solo per colpa sua: l’incapacità di crescere ancor di più giovani italiani (per la verità qualche passo è stato fatto in questi ultimi tempi, ma è un lavoro che richiede pazienza e abnegazione) e trovarsi dinnanzi otto o nove stranieri anche in formazioni quali il Palermo e l’Udinese, che dovrebbero essere più votate al marchio di fabbrica italiana, unite a un campionato ben poco allenante con partite dai ritmi blandi e la filosofia del “un pareggio va bene a entrambe” che ancora non abbiamo scalfito una volta per tutte, fanno sì che all’estero si viaggi su ritmi più elevati, con tornei che, al prezzo di difese imbarazzanti, sono sempre portati alla ricerca dei gol, dello spettacolo e della sfrontatezza. Porti di approdo che da noi ancora non sono completamente edificati. La sconfitta della nazionale non ricorda forse la debacle del secondo tempo della Juventus a Cardiff? L’imponenza e la maestosità di certe manovre, figlie di un meccanismo iper collaudato sin dalle squadre giovanili e inculcato nella cultura iberica, fa sì che una nazionale che per sessant’anni ha prenotato in anticipo l’aereo di ritorno da qualsiasi torneo internazionale, abbia ora allungato le prenotazioni degli alberghi sin quasi alla semifinale o ben oltre. In più, la Spagna pare iniziare a essere rifiorita anche dal suo momento di torpore fisiologico che pur ha dovuto affrontare dopo il biennio 2014-2016 e le rovinose uscite dal Mondiale brasiliano e dall’Europeo francese. Una breve sosta ai box che non ha scalfito il modello di cui sopra.
Dell’Italia invece ci teniamo buona l’organizzazione tattica che una volta si chiamava catenaccio e che oggi è comunque un’arma che rende sempre insidioso per una squadra straniera un viaggio da queste parti, e che rappresenterebbe per molti club europei poveri di equilibrio un toccasana: basti vedere quanto bene facciano gli allenatori italiani all’estero. Ma per andare a Madrid a fare risultato, per piegare quest’epoca dorata dei tedeschi o avere la meglio su corazzate che schierano certamente molti fuoriclasse ma che viaggiano a una velocità doppia rispetto a quella azzurra, occorre costruire un modello dal basso senza copiare quello altrui: adattarlo alle caratteristiche, spesso tormentate e problematiche, del paese Italia e lavorare sulla forza, la velocità e il possesso palla. Molti stranieri e pochi giovani, lo andiamo dicendo da anni eppure al culmine di certi appuntamenti il risultato non cambia. La scusante che l’Italia non fosse testa di serie al sorteggio è valida, ma quasi sempre nei grandi tornei in cui è arrivata in fondo, vincendo o perdendo, l’Italia ha sempre dovuto misurarsi con Francia, Brasile, Germania o Spagna. E se un tempo il curriculum era ottimo, oggi occorre un’inversione di tendenza nel modello e nella cultura, più che nei commissari tecnici, per essere assunti al tavolo dei grandissimi.
Stefano Ravaglia