La prima rielaborazione italiana di cinema verità fu compiuta da Pasolini con Comizi d’amore, un documentario d’avanguardia a stampo sociologico che fotografò l’Italia degli anni Sessanta.
Ispirato al cinéma vérité francese, Pasolini interroga il pubblico stesso su questioni figlie di quel tempo e su tabù considerati scomodi per quell’epoca, riflettendo sul tema della spontaneità e sincerità davanti la cinepresa; considerazioni già portate avanti dai pionieri francesi, ma mai contestualizzate in Italia.
Edgar Morin diede vita al cinema verità in Francia
Il termine «cinéma vérité», tradotto in italiano come cinema verità, fu lanciato dal sociologo francese Edgar Morin nel 1960, lo stesso anno in cui proiettò al Festival di Cannes il suo primo documentario di cinema verità “Chronique d’un été” (Cronaca di un’estate) diretto da lui stesso e Jean Rouch. A questo proposito, Morin disse:
Si tratta di fare un cinema verità che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.
Il film inizia con i due registi che discutono se sia possibile agire autenticamente davanti alla telecamera. Morin e Rouch, successivamente, discutono con molti cittadini parigini di argomenti relativi alla società francese e alla felicità. Infatti, come prima domanda chiedono loro se sono felici. I temi trattati sono vari: amore, tempo libero, lavoro, cultura e altre domande di vita quotidiana.
Nel cinema verità si mette in discussione la capacità del cinema di cogliere la realtà e la cinepresa diventa la testimone diretta nei confronti della realtà ripresa. Questa concezione è indicata come nuova antropologia del cinema.
La prima rielaborazione italiana di cinema verità
All’inizio degli anni Sessanta, Pasolini tentò varie sperimentazioni e, ispirandosi a Chronique d’un été, offre una sua rielaborazione del cinema verità nella forma di un film d’inchiesta che risultò del tutto singolare: Comizi d’amore. Il docufilm — come lo definì Pasolini — fu girato nel 1963 e presentato per la prima volta al Festival di Locarno nel 1964.
Le interviste sono condotte a uomini, donne e bambini, sia nel Nord che nel Sud Italia. Gli argomenti riguardano la libertà sessuale, il ruolo della donna e dell’uomo, la percezione dell’omosessualità, il divorzio, il matrimonio e la legge Merlin. In particolare, la tematica principale è l’amore nelle sue varie sfaccettature. Il montaggio del film alterna risposte opposte tra loro, da parte di individui di varie classi sociali e di diversi luoghi d’Italia. Pasolini giunse alla conclusione che in tutto il Paese vi era una complessità nel parlare il sesso, viverlo e talvolta pensarlo, a causa delle profonde convinzioni insite nella coscienza degli italiani.
Il lungometraggio è arricchito dagli interventi di intellettuali come Alberto Moravia e Cesare Musatti, assieme ai contributi di Camilla Cederna, Oriana Fallaci e Giuseppe Ungaretti.
Questo non è tanto un lavoro sulla spontaneità dei soggetti e sulla loro sincerità davanti la cinepresa, ma, al contrario, si basa sulla ricerca della parola falsa, svuotata di senso e i vari linguaggi che rappresentavano il mascheramento sociale. Una dissimulazione che è presente in ogni strato sociale, in tutta la Penisola.
Il dibattito sulla verità davanti la cinepresa
Il “limite” del cinema verità su cui si è dibattuto è proprio la mancanza di una sincerità assoluta e la presenza di una dissimulazione derivata dalla pressione sociale e della cinepresa. La questione è stata posta in primo luogo dagli stessi Jean Rouch e Edgar Morin: il film diventa un mezzo per capire in che modo la verità è mediata con la presenza della cinepresa.
I due registi vogliono fare cinema guidati dall’idea che è il mondo a cambiare di fronte alla macchina da presa. Di fronte ad essa avviene una presa di posizione del soggetto filmato e un cambiamento della realtà che porta a ripensare alla cinepresa come capace di creare una “nuova verità”, possibile solo all’interno del cinema.
Anzi, da una sola verità si arriva ad avere più verità, ciascuna con una accezione diversa, ma tutte reali dietro lo schermo. Queste molteplici realtà mettono in luce l’artificiosità del cinema.
I “limiti” di Comizi d’amore: la società che oscura la sincerità
Alcuni critici hanno evidenziato come Comizi d’amore, sotto questo aspetto, non sia considerato appieno un esempio di cinema verità perché gli intervistati sono condizionati dalla macchina da presa e dalle convinzioni sociali e culturali di quel tempo.
Nel documentario Pasolini riprese il momento in cui chiese a Moravia e a Musatti se fosse un bene cominciare quest’inchiesta. Moravia rispose positivamente, in quanto era la prima volta che in Italia si realizzava un film di cinema verità come invece era già stato fatto in Francia. Inoltre, era anche la prima volta che i contenuti di quest’indagine riguardassero la questione sessuale e altri tabù. Musatti, invece, ribatté dicendo: «Io penserei che la gente o non risponde o risponde in modo falso».
Musatti prevedette la non piena attendibilità e la probabile ipocrisia delle risposte ricavate. Anche Pasolini, mentre condusse la ricerca, si rese conto di non poter ricavare risposte sincere dagli intervistati poiché sapevano di essere filmati e circondati da un gruppo del loro stesso strato sociale che li influenzava a rispondere come la maggioranza.
Le risposte più sincere provenivano soprattutto dai bambini. Tra gli intervistati di Pasolini sono presenti anche infanti e adolescenti. Nelle loro parole, il regista bolognese riconosce che una spontaneità e una vivacità difficile da riscontrare negli adulti. I giovanissimi quando parlano non hanno filtri e non vivono in modo forte i condizionamenti sociali. Essi ancora non appartengono all’essere umano che è stato sottoposto alla trasformazione antropologica e all’omologazione studiata da Pasolini.
L’intervista ai tempi della rivoluzione antropologica
In Comizi d’amore, Pasolini compie un duplice lavoro di messa in discussione: pone la prima domanda agli intervistati e successivamente indaga sulle risposte date per cercare di svelarne il significato nascosto. Se per il cinema verità l’intervista è un momento di spontaneità, per Pasolini, invece, è lo spazio in cui l’intervistato rivela le proprie ipocrisie e finzioni.
Questo modo di intervistare è conforme alla nuova antropologia del cinema che lo stesso Morin puntualizzò. Ma la rivoluzione antropologica non si compì solamente nel cinema, ma anche nella società stessa. Pasolini studiò questo cambiamento proprio a partire da questo lavoro cinematografico.
Fulcro di questo documentario è senza dubbio il forte conformismo e l’omologazione nelle risposte degli intervistati. Da queste osservazioni cominciarono i suoi studi riguardo quella “mutazione” antropologica che sarà oggetto di indagine e di critica nei suoi successivi scritti. Con l’avvento della televisione, in una Italia che era così differenziata culturalmente, vi è stata una trasformazione che rivelò tutta la forza omologatrice della cultura consumistica nei pensieri e nei desideri degli individui. Lo studioso Vincenzo Cerami, a questo proposito, disse:
Fu guardando il modo di vestirsi, di pettinarsi e di parlare dei giovani che Pasolini introdusse il concetto, oggi tanto consumato, di omologazione. Fu dopo aver studiato il deperimento dei dialetti e la perdita della memoria storica che parlò di rivoluzione antropologica.
Valentina Volpi