Molti avevano indicato i Comitati Costituzionali come il locus da cui ripartire dopo il referendum del 4 dicembre, sull’onda di una malintesa interpretazione della vittoria del NO.
Infatti quest’ultima era solo in minima parte dovuta a un pathos costituzionale e per lo più esprimeva invece un voto anti-Renzi o basato sull’opposizione a singole leggi. E tra l’altro era anche in gran parte un voto che veniva dalla destra più retriva.
Ma molti hanno creduto di individuare nei Comitati il mezzo per addivenire a un ricompattamento sociale intorno a un progetto di alternativa, immaginando una corsa di quel 40% a costituire la “forza dei numeri” di revelliana memoria.
Ma che non potesse essere così appare chiaro oggi da quello che sta succedendo e dimostra come quella vittoria straordinaria abbia obnubilato la capacità di analisi della realtà o quntomeno abbia fatto immaginare autostrade inesistenti.
I Comitati Costituzionali hanno un indubbio valore ma unicamente specifico e legato all’impegno per la difesa e attuazione della Costituzione.
Stabilito questo, si sarebbe però dovuto tener conto dell’impossibilità di trasformarli in un progetto attraverso cui creare una forza popolare di alternativa, vuoi per quanto detto prima, vuoi per la loro composizione, vuoi per i personaggi che li abitano, vuoi perché i metodi che usano sono arcaici e inemendabili.
I Comitati Costituzionali sono troppo eterogenei per costituire una weltanschauung condivisa, sono l’opposto di quella democrazia partecipata che oggi servirebbe per ridare voce al popolo e non solamente a quelli che, millantando, si ergono a loro rappresentanti o leader.
E oggi si vede in molti Comitati regionali quello che molti avevano paventato, inascoltati: ovvero la loro incapacità di recepire proposte innovative, il loro essere troppo appiattiti sulle indicazioni che arrivano dal direttivo nazionale, la loro totale mancanza di capacità di auto-determinazione e auto-organizzazione, la loro chiusura a metodi realmente orizzontali.
Essi rappresentano un ennesimo vicolo cieco in cui si sono proiettate le aspirazioni di alcuni, le utopie di molti, un ennesimo tram chiamato desiderio che non porta però da nessuna parte, se non al solito capolinea da cui far ripartire poi la solita corsa.
La ricomposizione della base sociale dovebbe partire invece proprio dai malesseri che hanno generato quel NO referendario: dai territori, dalle singole lotte, dal disagio e dalle contraddizioni della base, non da strutture in cui ci sono i soliti “militanti” e le solite “personalità nobili” ma legate alle solite prassi verticistiche, burocratiche e a cui non si avvicineranno mai i molti “arrabbiati” di quel NO.
Insomma un altro errore dovuto all’incapacità di avere visioni innovative.
E questo è in fondo il male cronico di questi tre lustri del nuovo secolo: il non sapere togliersi dalle spalle la scimmia di prassi, ma soprattutto logiche, otto-novecentesche.
Gian Luigi Ago