I nostri fratelli di Calais come noi attendono l’occasione di partire

Tu che conosci la stazione e tutti quelli che ci vanno a dormire. Fagli avere un giorno l’occasione di potere anche loro partire…” La canzone preghiera di Francesco Gregori si presta a raccontare il dramma dei quasi diecimila migranti di Calais, che in queste ore vengono fatti salire sui camion e trasportati da un punto all’altro della Francia. I giornali di tutto il mondo titolano “si sta smantellando la giunga”. Si sta sgombrando il campo profughi più grande d’Europa, dove migliaia di migranti da anni vivono notte e giorno ammassati, in condizioni di estrema precarietà, tra violenza e degrado, mentre tentano di attraversare l’eurotunnel per arrivare in Gran Bretagna, magari nascondendosi sotto i camion.

Si usa il nome di un luogo abitato non da uomini, ma da bestie. Dove non c’è alcuna regola se non quella dell’istinto alla sopravvivenza. Dove la razionalità umana e l’umana solidarietà cede il posto alla logica del “salta chi può”: chi può sopravvivere, chi può oltrepassare il filo spinato, chi può raggiungere il porto di Calais per attraversare la Manica e arrivare nel Regno Unito.

Migrants walk on June 17, 2015 towards the ferry port of Calais, northern France. Around 3,000 migrants built makeshift shelters in the so-called 'New Jungle' before trying to go to England. AFP PHOTO / PHILIPPE HUGUEN

A Calais come a Palermo, a Crotone, a Santa Maria di Leuca e a Napoli dove nelle ultime 48 ore oltre quattro mila persone sono approdate sulle coste italiane. Calais è lo specchio del vuoto delle parole “accoglienza” e “solidarietà”, dell’ipocrisia degli intenti di quanti hanno permesso per oltre un decennio che in quella bidonville venissero ammassati esseri umani. In condizioni di vita terribili, senza più regole e limiti, con solo un obiettivo: sopravvivere e fuggire. “Fagli avere un giorno l’occasione di potere partire”, canterebbe anche a loro De Gregori. Perché il desiderio di ogni bambino, di ogni mamma, di ogni padre arrivato in Europa attraverso il mare non è continuare ad occupare strutture dove la più grande solidarietà è quella che va nelle tasche di chi è a capo del sistema. Il desiderio è partire e arrivare, là dove la vita può essere migliore.

I nostri fratelli a Calais, smistati e deportati da un centro all’altro, siamo noi. Siamo noi con la nostra attesa che passi il buio della disperazione e si possa approdare al porto sicuro della speranza. I fratelli di Calais siamo noi, abusati e condannati a prostrarci a terra, ma con il desiderio di rialzarci e camminare di nuovo.  E mentre si facevano accordi tra gli Stati per gestirli come ci si accorda per la spartizione di un terreno agricolo, nella bidonville continuano ad arrivare, a soffrire e a morire. Ma sempre con una speranza: di potere anche loro partire. Come vogliamo partire noi, dai nostri drammi quotidiani, dalle tenebre della vita che sembrano non finire mai.

A Calais ci siamo anche noi. Siamo anche noi caricati su quei camion, smistati tra chi per qualche fortuna o grazie a qualche parente potrà passare la Manica e chi sarà collocato in qualche centro dove ricomincerà l’Odissea dell’attesa. Noi siamo loro e al tempo stesso siamo gli altri, quegli altri che, per dirla con le parole della canzone di Umberto Tozzi, “si risvegliano, si rivestono, escono, partono, arrivano, ci somigliano angeli avvoltoi, come specchi gli occhi nei volti”. I fratelli di Calais siamo noi e sono gli altri. Da soccorrere, da aiutare, con i quali continuare a percorrere il cammino.

Chissà dove saranno oggi quei volti segnati dalla sofferenza, quegli occhi stanchi di attendere, che sembrano guardare nel vuoto, senza sapere quale sarà la loro metà. Cosa ne sarà dei loro sogni. Non sappiamo dove sono, in quale centro, se avranno o no passato la Manica. Ma di certo fanno quello che stiamo facendo noi in questo momento: aspettiamo di partire, vogliamo che passi questo momento personale e collettivo di dolore, vogliamo realizzare sogni, dare forma e sostanza alle speranze. Vogliamo una vita più felice. Noi come loro.

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