La Repubblica popolare cinese sta cercando di cambiare il significato dei diritti umani per rimodellare il sistema internazionale e renderlo più conciliante verso i paesi autoritari. Negli anni il disegno del partito comunista cinese ha assunto sempre più concretezza come dimostrano le crescenti pressioni diplomatiche nei confronti dei propri alleati all’Onu, finalizzate a sponsorizzare un approccio relativistico al tema dei diritti politici e civili.
Che la Cina voglia balcanizzare la globalizzazione a trazione statunitense per assumere essa stessa il ruolo di nazione-guida, non è più un segreto. Tuttavia, per realizzare i suoi obiettivi Pechino ha necessità di rimodellare il sistema internazionale a sua immagine e somiglianza in maniera pressoché trasversale, dall’economia alla politica, senza trascurare anche la spinosa questione dei diritti umani. Per questa ragione, negli ultimi anni il partito comunista cinese (Pcc) si è impegnato profondamente nel cambiare il significato dei diritti umani, criticando l’atteggiamento del mondo occidentale che a detta di Pechino pone ancora troppa attenzione sulla questione.
In Cina vorrebbero, infatti, che il sistema internazionale dell’Onu in tema di diritti umani fosse più favorevole nei confronti dei Paesi autoritari; scendendo nel caso specifico, il Pcc, ad esempio, non ha mai gradito l’attenzione delle agenzie delle Nazioni Unite su quanto accade nello Xinjiang con la repressione delle minoranza etnica degli uiguri, così come mal sopporta le denunce delle discriminazioni attuate dalle autorità cinesi in Tibet, tanto da considerare gli atteggiamenti della comunità internazionale un’ingerenza nella propria politica interna. Dal suo punto di vista, quando si è trattato di condannare le violazioni dei diritti umani nel mondo, la Cina ha sempre mantenuto una certa ambiguità diplomatica: l’ultimo esempio è la mancata condanna di Hamas dopo gli attentati terroristici in Israele.
Tant’è che fino al 2017, il gigante asiatico non aveva mai presentato risoluzioni al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra, dando l’impressione di non voler modellare le idee, le norme e i meccanismi di protezione dei diritti umani. Ma da allora le cose sono cambiate e l’atteggiamento di Pechino sul tema ha subìto delle modifiche sostanziali che si spiegano principalmente con la mutata percezione che la Cina ha iniziato ad avere della sua stessa potenza.
Non più Paese in via di sviluppo all’ombra degli Stati Uniti ma attore geopolitico di primo piano sullo scenario globale, negli ultimi anni la Cina ha deciso di adottare una politica diplomatica sempre più aggressiva sul tema, anche in seguito al vuoto lasciato da Washington al Consiglio dei diritti umani tra il 2018 e il 2020 durante la presidenza Trump.
Il relativismo culturale dei diritti umani e l’alternativa cinese
In Cina lo Stato è come una famiglia: ogni individuo ha il proprio ruolo da rispettare all’interno di un preciso sistema gerarchico, che permette il corretto funzionamento dell’intera macchina statale. Il principio è ribadito dall’articolo 51 della Costituzione cinese che recita: “Nell’esercitare le proprie libertà e i propri diritti i cittadini della RPC non devono nuocere agli interessi statali, sociali e collettivi, né ai legittimi interessi o libertà di altri cittadini.”
Nei primi del Novecento, la Repubblica popolare cinese ha iniziato a prendere dalla cultura occidentale solo ciò che era maggiormente in armonia con la propria idea di stato e di società e tra questi aspetti non sono mai rientrati i diritti umani. Infatti, sin dagli anni della rivoluzione maoista, il governo cinese non ha mai avuto una concezione netta e definita dei diritti umani ma ha sempre insisto sulla necessità di depotenziarne il concetto, a partire dall’erosione del principio di universalità.
Un aspetto, questo, che è stato ribadito recentemente anche dal Ministero degli Affari Esteri; nella proposta della Repubblica Popolare Cinese sulla riforma e lo sviluppo della governance globale si afferma che non esiste un modello unico per la promozione e la protezione dei diritti umani, ma ogni paese deve poter scegliere il percorso di sviluppo che più ritiene opportuno.
Quando il Paese non era ancora la fabbrica del mondo, il Pcc mise al primo posto gli interessi della collettività rispetto a quelli dell’individuo al fine di incentivare la crescita economica nazionale e l’industrializzazione. La necessità di realizzare il famoso “balzo in avanti”, lasciandosi alle spalle la “vecchia Cina” fornirà al governo comunista di Mao Zedong la giustificazione per soprassedere al tema dei diritti umani e reprimere con violenza il dissenso interno. Il copione si ripeterà nel corso della storia più meno allo stesso modo con poche variazioni sul tema come testimoniano i tragici eventi di Piazza Tiennamen nel 1989 sotto la presidenza di Deng Xiaoping.
Oggi, a distanza di oltre trent’anni dai massacri di Piazza Tiennamen, la Cina è diventata la seconda potenza economica globale ma la situazione interna non è cambiata; il Presidente Xi – Jinping sta ancora cercando un modo per far convivere in apparente armonia la dottrina comunista con gli assiomi del liberismo mentre lo stato cinese continua ad adottare una prospettiva relativista sui diritti umani.
Il potere della diplomazia cinese
In virtù della sua posizione di potenza globale, negli ultimi anni la Cina è ricorsa sistematicamente al proprio potere diplomatico in seno al Consiglio nelle Nazioni Unite per influenzare i dibattiti e proteggere i propri alleati. Pechino ha firmato e ratificato la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, ma non il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, il che significa che è vincolata giuridicamente solo dal primo documento ma ha mano libera per quanto riguarda il secondo punto.
D’altronde, al Pcc interessa influenzare gli altri paesi del mondo, in particolare quelli del Global South, affinché percepiscano la Cina come protettrice dei diritti economici, sociali e culturali mentre si continua a degradare quella parte del sistema dei diritti umani che consente di sviluppare norme, stabilire rapporti e condurre discussioni astratte sui potenziali miglioramenti nel consesso degli stati liberi del mondo democratico.
L’esempio più saliente di questa influenza è databile all’ottobre del 2022, quando la Cina provò a impedire lo svolgimento di un dibattito al Consiglio per i diritti umani a Ginevra sul tema del suo trattamento della minoranza musulmana uigura nello Xinjiang. In quell’occasione Pechino non riuscì ad avere la meglio ma la votazione a favore della risoluzione passò per una manciata di voti.
Quanto appena visto fornisce, implicitamente, una risposta anche al perché il governo cinese sia sempre così sensibile alle critiche sulle violazioni dei diritti umani quando queste vengono avanzate nei consessi internazionali come il Consiglio delle Nazioni Unite, anche se non sono vincolanti.
Le critiche sono pericolose perché rischiano di dare legittimità alle aspirazioni di resistenza politica coltivate dalle minoranze vessate in Nepal, in Tibet e nello Xinjiang; ma soprattutto possono sedurre una grande parte della popolazione cinese che non vive benissimo la compressione dei diritti civili e politici sulla propria pelle. Per questa ragione il Dragone rosso spinge per riformare il sistema delle Nazioni Unite e il modo in cui sono gestite le relazioni internazionali nella loro globalità.
In altri termini, per aprire una nuova era in seno all’ONU e gettare le basi per l’accoglimento di un sistema più accomodante nei confronti dei regimi autoritari, la Cina ha bisogno di una buona reputazione che la preceda.
Tuttavia, nelle relazioni internazionali la forma è anche sostanza, e nel lungo periodo i trilioni di dollari investiti in giro per il mondo da Pechino per aumentare le infrastrutture e gli investimenti sotto la Belt and Road Initiative (BRI) difficilmente potranno colmare il vuoto di trasparenza che la Cina sta creando intorno a sé sul tema dei diritti umani.
Ad esempio, quando il presidente Xi sostiene che la BRI è un sistema giusto, equo e trasparente di commercio e investimenti internazionali, omette di dire in che modo la trappola del debito sta stritolando i paesi Sud del Mondo che si sono rimessi alla ‘benevolenza’ cinese. Eppure, queste cose in Cina dovrebbero saperle visto che da quelle parti amano definirsi da sempre una democrazia popolare, per giunta, compiuta.
Tommaso Di Caprio