Come l’attivismo digitale su Gaza si trasforma in una maschera per l’auto-promozione

attivismo digitale su Gaza

Benedetta Lo Zito 
Attivista intersezionale, autrice e fondatrice del progetto "Suns - end rape culture" il quale si concentra sull'aiutare le vittime di abusi sessuali e promuovere la consapevolezza per contrastare la cultura dello stupro.

Benedetta Lo Zito

Attivista intersezionale, autrice e fondatrice del progetto “Suns – end rape culture” il quale si concentra sull’aiutare le vittime di abusi sessuali e promuovere la consapevolezza per contrastare la cultura dello stupro.


Con l’acuirsi della situazione palestinese e le continue violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele contro la popolazione palestinese, molte influencer e attivist3 digitali che in passato avevano mantenuto il silenzio improvvisamente hanno cominciato a condividere contenuti sulla Palestina. Questa tendenza suscita una crescente preoccupazione sull’ipocrisia nell’attivismo digitale su Gaza e la possibilità che l’apartheid palestinese possa essere sfruttato per migliorare l’immagine delle persone coinvolte.


Quando mi è stato chiesto di scrivere questo editoriale dal direttore editoriale di Ultima Voce avevo in mente qualcosa di completamente  diverso. In questa settimana devo dire che in me (ma soprattutto negl3 altr3) sono cambiate tantissime cose e quindi quello che sto per raccontarvi è un mix di emozioni personali e situazioni collettive in divenire, un po’come il calendario di questa “guerra” che non ho il coraggio di chiamare guerra, perché una guerra presuppone, nel linguaggio comune, un conflitto ad armi pari, non il massacro di una popolazione ad opera dell’occidente tutto. La definiremo così, ma decostruendone il termine, per comodità del lettorə.

La prima volta che ho iniziato ad occuparmi politicamente di Palestina ero al liceo, ed eravamo in quattro povere zecche ad essere d’accordo, in quell’assemblea; su di noi, gravava pesantissimo il fantasma dell’accusa di antisemitismo.

Perché, cari lettor3, come ormai forse avrete capito benissimo in questi giorni, opporsi al genocidio dei palestinesi equivale ad essere antisemiti. Se, come nel mio caso, sei anche gay, sei pure un’ingrata perché “a Tel Aviv fanno il Pride” (e insomma, la “pena di morte” prevista in Palestina per le persone queer evidentemente le cancella dalla mappa geografica o magicamente le trasforma in zucche etero a mezzanotte). Ma andiamo oltre. Devo spiegarvi perché sono partita dalla mia adolescenza per raccontarvi di come in questi (purtroppo) vent’anni di attivismo anticolonialista la percezione della Palestina, grazie a nuove, indomite seconde generazioni z in prima linea contro razzismo e islamofobia in Italia e in Europa, sia, fortunatamente, cambiata. Conosco pochissimi giovani a favore delle politiche sioniste, le piazze sono stracolme ogni fine settimana, le azioni collettive si moltiplicano anche solo rispetto al 2014. Non possiamo dire la stessa cosa per gli over 30 e, soprattutto, appare evidente il doppio standard nel mondo intellettuale e giornalistico (le bandierine per l’Ucraina sì, riconoscere 8500 morti come un pelino fuori controllo, o la colonizzazione della Palestina da settantacinque anni, mai). Altrimenti sei, indovina un po’? Antisemita. Che vuol dire una cosa specifica, eh, e anche molto grave: significa odiare e discriminare gli ebrei, compresi quelli che si stanno facendo arrestare uno ad uno nelle manifestazioni pro Palestina in tutto il mondo per chiedere un cessate il fuoco. E, soprattutto, mischia noi antifascist3 a una cultura che abbiamo sempre contribuito a combattere, e che ci fa orrore da ben prima che ce lo ricordassero un utente di Facebook o il direttore di Repubblica.

Ma veniamo al motivo per cui sono qui: sono un’esperta di piattaforme e attivismo digitale. Ho un profilo Instagram che ha iniziato a essere discretamente seguito quando ho scritto decine e decine di post sulla mia esperienza come survivor di violenza sessuale. Poi, ovviamente, ho iniziato a metterci anche altro, comprese le mie competenze, ma evidentemente un certo tipo di pubblico voleva rimanessi “la stuprologa”. Anche un po’ triste e abbattuta, per entrare bene nella parte.

Siccome nel mio attivismo tendo ad analizzare soprattutto i comportamenti personali, per decostruire, come si dice nella bolla, ma per davvero, negli ultimi anni ho iniziato a notare delle crepe non indifferenti in quello che viene definito il “mondo dell’attivismo digitale”. In sostanza, per farvi capire di cosa stiamo parlando, una cosa che nasce sacrosanta ma finisce a tarallucci e vino, come un brutto film della Marvel.

Per attivismo digitale si intende infatti, in origine, l’idea di utilizzare internet come mezzo di comunicazione fra persone che non possono raggiungersi fisicamente a vicenda, ma che vogliono partecipare lo stesso ad alcune lotte  politiche. Pensiamo ad esempio a quant3, in Europa, hanno conosciuto le istanze BLM (Black Lives Matter) e le proteste statunitensi successive all’omicidio di George Floyd. Pensiamo alla possibilità che abbiamo di raggiungere gl3 attivist3 per i diritti indigeni e sentire dalle loro voci, per la prima volta in molti casi, le rivendicazioni che rappresentano battaglie politiche fondamentali per il clima, la terra, la lotta al capitalismo e al colonialismo. O, infine, alle mille comunità che è possibile trovare e con cui è possibile connettersi se si fa parte di una categoria marginalizzata e, per disabilità o lontananza geografica, non si avrebbe altro modo di partecipare attivamente.

Ecco, ciò che nasce come un modo di rendere più accessibili queste lotte collettive, è stato spazzato via, nel tempo, dalla possibilità di generare carriere e profitto mescolando un piano che dovrebbe restare chiaro e limpido come quello dell’attivismo intersezionale con quello dell’influencing e self branding, che risponde a logiche di mercato e visibilità. Ma non visibilità condivisa, bensì posizionamento individuale.

Sono nate, in questi anni di capitalistizzazione delle piattaforme, figure a cavallo tra l’attivista e l’influencer che, tra una pubblicità (spesso non etica) di un rossetto e l’altra, inseriscono nei feed foto della manifestazione in primo piano, o pubblicano una storia condivisa “geniale” dell’amica loro “prima che scada”, un occhio strizzato alla guerra nel paese X, una foto di una festa adv o gifted by, la promozione dei libri e dei podcast a vicenda (se apri i social relativi a un panel a caso, spesso vengono anche invitat3 in blocco). Hanno iniziato con il femminismo perché era la cosa più washable possibile (le donne devono fare soldi, dicono, i soldi sono potere!) e poi hanno spostato questa visione un po’ a tutte le battaglie per i diritti civili, comprese quelle contro l’omolesbobitransfobia, l’abilismo o la grassofobia. Non c’è mai, in queste “lotte” digitali, la componente anticapitalistica o di classe (che comunque dovrebbe far parte dell’intersezionalità, perché una persona nera anche povera subisce una doppia marginalizzazione), semplicemente perché esse si svolgono su piattaforme che devono vendere. E, se alla fine si creano personaggi che ti stanno simpatici, si vende di più.

Veniamo alla questione palestinese, che secondo me riassume benissimo la problematica morale che stiamo vivendo; ho divagato fin troppo, ma volevo chiarire alcuni concetti di base.

Dunque, come forse vi sarete accort3, è scoppiata la “guerra”; e, chi di noi non ha mai smesso di seguire la causa palestinese ha giustamente usato quel minimo di visibilità che possiede per sensibilizzare, condividere fonti e compagn3 di Gaza, creare reti di attivismo, mettere in contatto le persone fra loro, fare controinformazione in una marea di media che sembrano volersi costantemente dimenticare delle morti non israeliane. Nel frattempo, attivisti come Karem Rohana (@karem_from_haifa) sono stati pestati al loro ritorno a Roma per il semplice fatto di essere palestinesi. Sono stati chiusi podcast di giornalisti influenti che hanno preso posizione, ritirati gli inviti ai saloni del libro a gente come Patrick Zaki, invasi di fango i DM personali.

Ma, soprattutto, l’algoritmo delle piattaforme, in cui chi paga di più ottiene più visibilità, ha censurato sistematicamente ogni forma di sostegno alla causa palestinese attraverso hashtag proibiti, traduzioni di “palestinesi” come “terroristi”, cancellazione di interi profili che facevano informazione sulla Palestina etc. etc.; ecco, capite bene che prendere posizione in tutto questo è stato alquanto sfiancante, soprattutto perché avvenuto nel silenzio di chi si definisce “attivista intersezionale” (che sta anche per anticolonialista, anti-islamofobo e antirazzista), mentre una decina di noi pover3 stronz3 bianch3 privilegiat3  invocava a gran voce un briciolo di supporto per 3 compagn3 palestinesi.

Niente, silenzio totale e assordante, un post su Gianbruno, una presentazione del libro dell’amica, la solita adv, un evento, un panel, problemi squisitamente personali, la giostra insomma continuava a girare.

Poi, di colpo, la situazione palestinese appare sempre più chiara: Israele commette ogni tipo di atrocità contro la popolazione, i numeri non reggono la scusa della “difesa”, i famosi stupri, torture e bambini decapitati di Hamas iniziano a sembrare quello che sono (ovvero, notizie mai verificate e interpretazioni strettamente personali di video e passaparola); il che non vuol dire che non siano accaduti, vuol dire che manca la conferma di organi sovranazionali ufficiali, che invece hanno evidenziato come reali il numero dei bambini morti (più di ogni conflitto dal 2019) e l’utilizzo di bombe al fosforo bianco, o chiamato col proprio nome (crimine di guerra) l’illegalità di spostare un popolo intero se “non vuole essere bombardato”.

Ecco, risulta più complesso rimanere “neutrale”, più semplice prendere posizione, e più svantaggioso che vantaggioso perdere follower a sinistra; magicamente, tutte l3 influencer e le attivist3 digitali che hanno taciuto finora iniziano a postare sulla Palestina, condividendo foto e video dei bombardamenti tra l’ennesima pubblicità e una festa di Halloween. Qualcunə ci ricorda che è normale stare male e quindi “si prende una pausa dai social”, altr3 citano Vittorio Arrigoni, altr3 ancora mettono foto dalla manifestazione per ricordarci che ci sono andat3.

Come ci tiene a far sapere Motaz Azaiza, il fotografo palestinese che insieme ad altr3 collegh3 è rimasto a Gaza per documentare gli orrori a cui stiamo assistendo, i nostri repost senza azione, fra una cazzata e l’altra delle nostre vite, sono inutili e ipocriti; come dargli torto.

Ma allora, quale potrebbe essere il modo giusto di utilizzare i nostri spazi social per sostenere davvero la popolazione di Gaza? Esiste davvero un modo per fare qualcosa da questa parte del mondo?

La soluzione, amici miei, è semplice: tornare allo stato originale dell’idea per cui l’attivismo digitale non è uno spazio di promozione e autoassoluzione individuale, ma uno strumento di lotta collettiva.

Innanzitutto, smettiamo di metterci al centro; stiamo soffrendo, ho capito, ma stiamo soffrendo con le chiappe al caldo nelle nostre belle case occidentali, con tutti i comfort del caso, acqua, cibo, medicine e un tetto che non ci crolla sulla testa. Lo sappiamo benissimo che la salute mentale è importante, ma in questo momento la nostra emotività, rispetto alla causa palestinese, è un first world problem, esattamente come lo è un comunicato scritto malissimo del governo Meloni che ci vorrebbe tutte madri asservite alla patria (sai che novità).

Dobbiamo utilizzare il nostro spazio di visibilità per essere una cassa di risonanza (e non fornire la nostra analisi geopolitica occidentale a profusione), e diminuire il resto dei contenuti (che per carità, una foto in maschera il 31 è normale, stiamo andando avanti con le nostre vite per quanto possibile, ma dieci selfie al giorno, una festa pagata e cinque sponsorizzate con in mezzo il conto dei bambini morti capite bene che è quantomeno di cattivo gusto). La Palestina non è l’accessorio più di sinistra da indossare al momento, ma rappresenta quel fratello o sorella che ha più bisogno del nostro aiuto, e mi sembra di ricordare che abbiamo detto che non avremmo lasciato indietro nessunə.

Anche perché se la gente usa i vostri codici sconto dopo che vi siete posizionat3 sulla Palestina, è vagamente un free riding.

E poi, ricordarci che “il nostro compito” come alleat3 non si ferma al lavaggio della coscienza con una storia o una foto alla manifestazione. Essere parte di una causa politica richiede tempo, studio, approfondimento. Richiede connessioni umane (fisiche e digitali) con i protagonisti reali di quella causa, richiede mettersi in ascolto e imparare. Ma soprattutto, prevede la formazione di reti di lotta collettiva, azioni, boicottaggio, sacrificio del nostro tempo pubblico e privato; spesso, come per chi sta rinunciando alla presenza a Lucca, anche del nostro denaro.

Non è possibile esaurire una causa come quella dell’apartheid palestinese con poche storie, condivise male, in una settimana o poco più, quello che dovreste fare, se veramente volete supportare Gaza e ogni battaglia per la resistenza indigena, è rendere l’anticolonialismo uno strumento di studio e lotta come parte di una pratica costante di autocoscienza e formazione collettiva, di sapere e potere dal basso. Questo richiede più di una condivisione di 24 h su Instagram, e soprattutto merita molto, ma molto di più di un paio di influencer che hanno aspettato fino all’ultimo, come un portiere che deve parare un rigore, per capire da che parte buttarsi.

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