Banche nemiche dell’ambiente: $7 trilioni all’industria dei combustibili fossili

report di Legambiente incontro internazionale per salvaguardare l'Amazzonia 7854 Le banche hanno finanziato le industrie dei combustibili fossili per 7 trilioni di dollari, secondo Banking on Climate Chaos.

Secondo il report annuale di Banking on Climate Chaos, negli ultimi otto anni le banche più potenti del mondo hanno finanziato l’industria dei combustibili fossili con 6.9 trilioni di dollari; 705 i miliardi destinati solo nell’ultimo anno. Le 60 banche che rientrano nell’indagine sono in prevalenza statunitensi e asiatiche. Due le italiane: Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Sono ben 6.9 trilioni di dollari: ecco il finanziamento calcolato da Banking on Climate Chaos negli ultimi 8 anni (dal 2016, anno dell’Accordo di Parigi firmato da 197 paesi per fermare il surriscaldamento globale, al 2023) dalle banche più potenti del mondo all’industria dei combustibili fossili. Nell’ultimo anno, sono stati 705 i miliardi che 60 banche nel mondo hanno destinato principalmente all’estrazione di petrolio e di gas.

L’indagine, pubblicata annualmente, e contenente dati sempre meno rassicuranti, mette in luce la profonda incoerenza della politica mondiale in tema di cambiamento climatico, all’apparenza impegnata strenuamente a ridimensionare il problema, ma interessata in realtà a investire su pratiche altamente inquinanti e distruttive, che favoriscono l’impoverimento del suolo e l’inquinamento atmosferico.

Le 60 banche coinvolte nell’indagine

Il report Banking on Climate Chaos 2024, quest’anno alla sua 15esima edizione, segnala che sono circa 4200 le aziende coinvolte nell’estrazione di petrolio e altri combustibili fossili principalmente nell’Artico e in Amazzonia che beneficiano dei lauti finanziamenti delle banche, veri e propri incentivi per la distruzione di ecosistemi ed emissione di CO2.

Delle 60 banche principali finanziatrici dell’industria del combustibile fossile, il 30% sono statunitensi: in testa c’è JPMorgan Chase, con più di 430 miliardi di dollari destinati all’estrazione di carbone e petrolio negli ultimi otto anni; seguono con distacco le connazionali Citigroup e American Bank, con rispettivamente 396 miliardi e 333 miliardi di investimenti nel settore. Solo al quarto e sesto posto troviamo le banche giapponesi Mitsubishi UFJ Financial Group e Mizuho, con 307 e 272 miliardi di dollari dal 2016.

Il primo istituto di credito europeo si trova all’ottavo posto ed è Barclays, con sede nel Regno Unito e 235 miliardi di dollari di finanziamento alle compagnie petrolifere, di cui 24 miliardi solo nell’ultimo anno. Le due banche con sede in Italia, Unicredit e Intesa Sanpaolo, registrano 67 e 47 miliardi di finanziamenti negli ultimi otto anni. Molto poco, se paragonati ai grandi numeri delle banche americane e giapponesi, ma certamente cifre ingenti se rapportate al contesto dell’economia italiana.

Unicredit figura tra i principali finanziatori di Eni, ovvero la quinta multinazionale tra i Top fossil fuel clients e azienda nota per il green washing praticato senza scrupoli. Mentre tinge il proprio logo di verde, Eni trivella l’Artico da anni, e non accenna a fermarsi.

Le giustificazioni dei portavoce delle banche

I portavoce occidentali di gran parte delle banche citate dal report hanno dichiarato che quelle ingenti cifre sarebbero in realtà soldi destinati a finanziare la transizione ecologica verso la sostenibilità nel settore energetico delle aziende leader del petrolio. Diverse società hanno inoltre messo in dubbio la validità dell’indagine, asserendo che sia impossibile assegnare una destinazione precisa di utilizzo nei confronti di investimenti di tale portata.

Ѐ evidente che siamo di fronte ad affermazioni volte a screditare il lavoro magistralmente eseguito da Banking on Climate Chaos che di certo non lascia spazio a dubbi, e che peraltro, come da prassi, ha dedicato un’intera sezione del proprio portale per spiegare la metodologia della ricerca effettuata.

Le implicazioni umanitarie secondo Banking on Climate Chaos

All’interno del report, viene specificato che non è solo l’ambiente a risentire dello sfruttamento del terreno per prelevare i combustibili fossili con conseguente rilascio di carbonio nell’aria, ma anche le persone. Bisogna considerare, infatti, che le prime vittime dello sfruttamento del suolo e conseguentemente della crisi climatica sono i popoli indigeni, la comunità nera, i lavoratori a basso salario come pescatori o piccoli agricoltori, che spesso vivono in povertà e riescono a sostentarsi grazie alla ricchezza del suolo.

Molti attivisti si sono impegnati per fare da cassa di risonanza per le proteste di questi popoli, la cui voce è troppo spesso oppressa dai governi locali perché ritenuta priva di importanza. Lo stesso Banking on Climate Chaos è un progetto finanziato da 8 ONG e approvato da centinaia di piccole e medie associazioni ambientaliste e umanitarie sparse in tutto il mondo a sostegno delle comunità e dei territori indigeni, ma totalmente indipendente da finanziamenti governativi.

Tom Goldtooth, direttore esecutivo di Indigenous Environmental Network, gruppo di attivisti tra i principali sostenitori del progetto Banking, ha dichiarato:

«Coloro che investono nei combustibili fossili continuano ad alimentare le fiamme della crisi climatica. Assieme a intere generazioni di colonialismo, l’industria dei combustibili fossili e l’investimento da parte delle istituzioni bancarie in false soluzioni creano condizioni invivibili per tutta l’umanità sulla Madre Terra. In quanto Popoli Indigeni, rimaniamo in prima linea come vittime della catastrofe climatica e l’industria dei combustibili fossili prende di mira le nostre terre come zone di sacrificio per continuare l’estrazione. Il capitalismo e l’economia basata sull’estrazione perpetueranno solo più danni e distruzione contro la nostra Madre Terra, e questo deve finire».

Ancora schiavi dei combustibili fossili, ma non abbiamo più tempo

Il messaggio veicolato dal report di Banking on Climate Chaos è chiaro: la strada per liberarci dai combustibili fossili, nonostante gli accordi di Parigi lo prevedessero entro il 2050, è ancora lunga e in salita. Se le multinazionali non saranno in grado di convertire le loro principali attività produttive in breve tempo, o peggio, sceglieranno di non farlo in nome del guadagno, il riscaldamento globale supererà la soglia limite di 1,5°C di aumento, e metteremo globalmente la firma sulla fine dell’umanità. Per farlo è necessario che le banche più potenti del mondo dirigano i propri finanziamenti miliardari a questo tipo di transizione, senza coprirsi di falsi propositi e green washing.

Questo non significa che noi cittadini comuni non possiamo fare nulla, per cambiare le cose. Possiamo, ad esempio, scegliere di non affidare i nostri risparmi a banche coinvolte in questo tipo di finanziamento. Esistono le cosiddette “banche etiche“, che operano dando la priorità a principi umanitari e di sostenibilità ambientale. Si tratta certamente di una goccia nel mare, ma si sa, tante gocce fanno un oceano.

Michela Di Pasquale

 

 

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