Il colonialismo d’insediamento sionista in Palestina si fonda sulla cancellazione dell’identità storica dei palestinesi e sulla costruzione di una narrazione storica falsificata dove la Palestina rappresenta la patria promessa degli ebrei dopo 2000 anni di esilio. Questa ricostruzione storica ha permesso di giustificare oppressione e apartheid perpetrati contro il popolo nativo palestinese.
Uno dei mali della società neoliberista è la tendenza a declassare le materie umanistiche, in particolare la storia, perché ritenute di poco valore, ma proprio l’assenza di un approccio storico alle questioni geopolitiche attuali costituisce il punto di partenza per l’affermarsi di narrazioni atte a legittimare condotte politiche fasciste e razziste. Il vuoto storico viene riempito dalle ideologie e dalle propagande. E proprio davanti alla questione palestinese emerge con forza la necessità di rimettere la storia al centro dei pubblici dibattiti.
Oggi più che mai un approccio storico può riscattare la memoria degli oppressi e riportarla alla luce, la conoscenza del passato rappresenta uno strumento di lotta civile contro la cancellazione dell’identità storica dei palestinesi.
Colonialismo d’insediamento e patria ebraica
Ilan Pappe, storico ebreo antisionista, definì il sistema coloniale instaurato dai sionisti nelle terre di Palestina usando l’espressione “colonialismo d’insediamento”.
Il colonialismo d’insediamento è stato portato avanti dai sionisti provenienti principalmente dall’Europa centro-orientale, cioè da coloro che forti delle tesi avanzate da Theodor Herzl, fin dal primo momento in cui misero piede in Medio Oriente non si proposero di trovare una casa in cui vivere, bensì una patria, o per meglio dire, una nazione. La necessità di darsi un’identità nazionale ha sempre guidato il modus agendi dei sionisti e giustificato violenze e oppressione esercitate sui nativi che già abitavano quella terra in cui ambivano a riscattare pretese identitarie e nazionali.
Si discusse a lungo su quale dovesse essere la terra dove far sorgere la nuova nazione ebraica, Australia o America latina, Africa o Medio Oriente, nell’immaginario sionista in ogni caso, si escludeva ogni considerazione sul fatto che indipendentemente dal continente scelto, quelle terre fossero già abitate da altri popoli, appartenessero ad altre genti che possedevano già una cultura, una religione e un’identità.
L’identità storica dei palestinesi, il loro stesso diritto di esistere, diventava così sacrificabile in nome del diritto d’autodeterminazione dei colonizzatori.
“Inferiori, voi non avete una storia”
Nel contesto del colonialismo d’insediamento, in Palestina come in Sudafrica, l’incontro tra i colonizzatori europei e gli autoctoni andò a finire con atrocità, pulizie etniche e apartheid.
I popoli indigeni rappresentavano l’incomodo da assimilare, o da sottomettere, opprimere e cancellare qualora avessero opposto resistenza.
La frase che il colonialismo d’insediamento ripete ai nativi è: “inferiori, voi non avete una storia”. Come ha sottolineato lo storico Ilan Pappe, il colonialismo d’insediamento sionista tende alla cancellazione dell’identità storica dei palestinesi per sostituirla con una narrazione storica alternativa al servizio dei colonizzatori, in cui il popolo indigeno semplicemente non esiste, così da autoassolversi da qualsiasi condotta oppressiva e violenta.
Per poter insediarsi i colonizzatori sionisti cacciano gli indigeni dalle loro terre, ma prima ancora di espellerli fisicamente, li rimuovono dalla narrazione storica.
La cancellazione dell’identità storica dei palestinesi passa anche attraverso l’eliminazione di ogni traccia riconducibile all’esistenza autoctona dalle arti figurative, un pittore sionista espungerà dalla rappresentazione di un paesaggio qualsiasi elemento nativo. I villaggi palestinesi, le foreste e i quartieri prima ancora di essere distrutti fisicamente per fare spazio alle colonie sioniste, vengono soppressi nell’arte.
L’arte e la storia diventano così strumenti in mano ai colonizzatori, usati per annientare ogni traccia dell’identità storica dei palestinesi.
La costruzione di una narrazione utile al colonialismo d’insediamento
L’attuale classe dirigente israeliana è costituita da coloni ebrei-sionisti (aschenaziti, discendenti dei Cazari, un popolo turcofono originario dell’Asia centrale), provenienti soprattutto da Russia, Polonia, Bielorussia e Ucraina, giunti nelle terre di Palestina con la seconda ondata, tra il 1905 e il 1920, la stragrande maggioranza di loro non aveva mai visto né visitato la Palestina prima, nei loro paesi d’origine si parlava solo di una terra vuota e disabitata in cui poter costruire una nazione ebraica.
I piani del colonialismo d’insediamento sionista, riconosciuti dalla Dichiarazione Balfour, si scontrarono però con l’esistenza degli autoctoni e dovettero fare i conti con l’identità storica dei palestinesi che costituivano il 96 % della popolazione. Proprio quei nativi palestinesi che appena giunti in quella nuova terra sconosciuta gli avevano offerto ospitalità e ristoro, divennero ben presto nella narrazione sionista gli alieni, colpevoli di aver usurpato la terra dei loro antenati, l’ostacolo alla realizzazione della patria promessa dopo 2000 anni di esilio.
David Ben-Gurion, fautore del colonialismo d’insediamento e padre dello stato sionista d’Israele, affidò a Ben-Zion Dinaburg, uno dei massimi storici ebraici, un progetto di ricerca atto a dimostrare la costante presenza ebrea in Palestina, a partire dall’epoca romana.
Nonostante la narrazione storica consegnata alla Commissione d’inchiesta dell’ONU (UNSCOP) fosse fondata su dati e prove totalmente falsificati e inventati, la Comunità internazionale la ritenne valida e come afferma lo storico Ilan Pappe, su tali basi giustificò “l’immorale idea di dare la Palestina al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in particolare per l’Olocausto”.
Il riconoscimento della nazione ebraica in Palestina rappresentò il riscatto dagli orrori commessi contro gli ebrei in Europa.