Missione dell’educatore è quella di educare alla vita: egli offre ai suoi discepoli strumenti utili a leggere il reale e ad affrontarlo. Compito dello scrittore è, invece, quello di introdurre in quel reale la fantasia, e farne vivere. È nella figura di Collodi che il ruolo dell’educatore e quello dello scrittore si imbrogliano e si sbrogliano, consentendoci di entrare in contatto con una delle personalità più emblematiche dell’ottocento italiano.
Le radici di Pinocchio
L’opera con cui Carlo Collodi ha fatto breccia nei cuori di grandi e piccini è Pinocchio. Abbiamo tutti – chi prima, chi poi – subito il fascino del vispo burattino parlante, quel burattino che, dopo aver bighellonato – tra una marachella e l’altra – di qua e di là, diviene, per mezzo dell’intervento della fata turchina, un bambino perbene. Peccato, però, che il lieto fine che noi tutti, oggi, conosciamo non fosse contemplato dall’autore al momento della prima stesura.
Collodi aveva, originariamente, costruito una conclusione tragica per la sua storia. Ciò era dovuto, in primo luogo, al contesto in cui l’opera – pubblicata a puntate, a partire dal 1881, sul Giornale per i bambini – si andava collocando, e, in secondo luogo, alla penna dei predecessori, al cui influsso l’autore, inevitabilmente, soggiaceva.
A preannunciare Le avventure di Pinocchio era stato il Giannettino, libro dello stesso Collodi, pubblicato nel 1877 per l’editore Paggi. L’opera, incentrata sulle vicissitudini di un ragazzino pestifero, nasceva, a sua volta, sulla scia di un altro componimento, il Giannetto, pubblicato nel 1837 da Parravicini. Considerato il più bel libro di lettura ad uso dei fanciulli e del popolo, il Giannetto rispondeva a uno scopo educativo: attraverso il racconto delle vicende del protagonista, l’autore si prefissava – indossando le vesti dell’educatore – l’obiettivo di impartire ai bambini nozioni inerenti i più disparati campi del sapere, dalle arti ai mestieri, dalla geografia alle scienze naturali, dai doveri morali ai bisogni dell’uomo, e mirava, inoltre, a veicolare precetti di pratica applicazione.
Il Giannetto costituiva, dunque, la chiave d’accesso a un mondo – l’impiego didattico della letteratura per l’infanzia – ormai scomparso.
La letteratura per l’infanzia all’epoca dell’Unità d’Italia
Drammatica era la situazione cui l’Italia, a ridosso del 1861, doveva far fronte. Massiccia era la presenza di illetterati, specie nel sud del paese. La letteratura per l’infanzia si prefigurava, allora, quale strumento privilegiato per debellare l’analfabetismo.
Correva l’anno 1877 quando Michele Coppino, Ministro della Pubblica Amministrazione, applicò, per la prima volta, la legge sull’istruzione obbligatoria e gratuita nelle scuole elementari. Molteplici furono gli autori che, a partire da quel momento, cominciarono a redigere opere improntate a veicolare norme morali e comportamentali. Tra i tanti si annoverano i nomi di Taverna e di Soave: l’arte assolveva, per loro – in quanto scrittori-educatori -, a una funzione educativa, funziona rivolta, in primis, ai fanciulli e, più in generale, al popolo. Risultava, di fatto, necessario – in virtù della raggiunta unificazione – formare i cittadini in materia di patriottismo e di nazionalismo.
Forgiare uomini e futuri uomini consapevoli era il bersaglio cui, con il suo Giannetto, mirava anche Parravicini. Le vicende costruite dall’autore si discostavano grandemente dagli intrecci fiabeschi cui saremmo divenuti avvezzi in seguito: della fantasia – intesa non come creazione, bensì come distacco dalla realtà – non figurava traccia.
Il caso Collodi: da maestro di vita a fabbricante di sogni
Carlo Collodi, pur facendosi portavoce della missione educativa della letteratura per l’infanzia, non si è mai mostrato quale fedele sostenitore del carattere nozionistico delle opere letterarie. La sua indole creativa -ribelle rispetto ai canoni dell’epoca- emerge fin dai Racconti delle fate (1876), sua prima pubblicazione, nonché traduzione dal francese delle fiabe di Charles Perrault, di Madame d’Aulnoy e di Madame Leprince de Beaumont. Affiorava, già in quella occasione, il desiderio di offrire ai ragazzi una lettura più ricreativa che educativa.
Sarà con Le avventure di Pinocchio che Collodi esaudirà il suo sogno e quello di migliaia di bambini. Come si è sottolineato, egli era solito pubblicare – a puntate – l’originariamente nota Storia del burattino sul Giornale per i bambini, periodico che militava, anch’esso, nella corrente di letteratura per l’infanzia a carattere pedagogico. I piccoli lettori – destinatari privilegiati di quella penna – bramavano, tuttavia, una sorte migliore per quel personaggio cui, di puntata in puntata, si erano affezionati: non ne avrebbero accettato la morte per mano del gatto e della volpe. Allo scopo di accontentarli, Collodi deciderà di impiegare le sue energie alla ricerca di un lieto fine, fungendo da artefice e da protagonista di una delle più straordinarie metamorfosi.
In origine, le fiabe – poiché pensate per istruire e rivolte, spesso, ad un pubblico adulto – non terminavano con il lieto fine. La ricerca del lieto fine è una tendenza che si svilupperà solo a partire dal Novecento. In tal senso, Collodi può essere considerato un anticipatore, nonché promotore di una letteratura intesa non come mezzo d’istruzione, bensì come mezzo d’evasione. Tramutandosi da educatore a scrittore egli diviene, di fatto – per mezzo della narrazione fiabesca -, padre del diletto.
Sono queste le vicende che narrano di come la Storia del burattino, assunta nuova forma con Le avventure di Pinocchio, abbia conosciuto fama mondiale, divenendo uno dei libri più letti di sempre.