“The Brain Collection”: il dilemma etico alla base della più importante collezione di cervelli al mondo

collezione di cervelli

La collezione di cervelli dell’Università della Danimarca meridionale conta quasi 10.000 unità, un patrimonio scientifico dal valore inestimabile che ha permesso importanti progressi nel mondo della ricerca sulle patologie psichiatriche. Una ricchezza innegabile per l’umanità, conquistata però senza che sia mai stato richiesto il consenso dei pazienti o delle loro famiglie

Da poco spostata da Aarhus all’Università della Danimarca meridionale di Odense, “The Brain Collection” è la più grande collezione di cervelli umani di cui si abbia notizia, una raccolta di 9479 organi espiantati dai corpi di pazienti psichiatrici deceduti in Danimarca per oltre tre decenni a partire dal secondo dopoguerra. Secondo una stima di Thomas Erslev, professore di storia della medicina all’Università di Aarhus, la collezione in questione conterrebbe i cervelli di metà delle persone morte negli istituti psichiatrici danesi tra il 1945 e il 1982, espiantati per quasi quarant’anni senza che fosse mai chiesto in precedenza il consenso degli stessi o delle loro famiglie.

La pratica di procedere con l’analisi e la collezione di cervelli di pazienti psichiatrici, comune in molti istituti psichiatrici durante il ventesimo secolo, prevedeva l’espianto dell’organo come primo passo verso la ricerca di nuove cure o terapie per le malattie mentali e di per sé è un’operazione che offre straordinarie potenzialità per l’avanzamento della ricerca, senza che vi sia un danno per i pazienti deceduti in sé. Una prassi che sulla carta poteva apparire quasi innocua e che tuttavia si basa su un’enorme omissione: quella della mancata richiesta del consenso per procedere con l’espianto del cervello al paziente o alla sua famiglia, in quella che si configura come una chiara violazione dei diritti umani e una lesione della dignità delle persone coinvolte.

È importante sottolineare che, sebbene sia il più noto, quello della collezione di cervelli dell’Università della Danimarca meridionale non è un caso isolato, perché la pratica di espiantare i cervelli dei pazienti psichiatrici è stata comune in diversi istituti durante il Novecento

Alla fine della seconda guerra mondiale, in Danimarca come nel resto dell’Europa, la diffusione delle malattie mentali e dei disturbi post traumatici fu tale da rendere necessaria la creazione di istituti specializzati che potessero fornire le cure necessarie a un numero crescente di pazienti psichiatrici. Con la diffusione quasi endemica delle malattie mentali nel secondo dopoguerra, si fece urgente il bisogno di trovare soluzioni, una necessità che si scontrava con le conoscenze finora parziali delle cause scatenanti della malattia a livello fisiologico. Animati dalla volontà di trovare opzioni efficaci per prevenire o curare l’insorgere di patologie psichiatriche, furono diversi i medici che lavoravano negli istituti dedicati ai malati mentali che ritennero potesse essere particolarmente proficuo espiantare e studiare i cervelli dei pazienti una volta deceduti.

Nel caso della collezione di cervelli danese, furono i dottori Erik Stromgren e Larus Einarson ad avviare la ricerca, successivamente rinforzata dal supporto del patologo Knud Aage Lorentzen, che come capo delle operazioni all’Istituto di Patologia Cerebrale portò la collezione ad ampliarsi fino alle dimensioni attuali nel corso di più di tre decenni. Dei quasi 10.000 cervelli espiantati e conservati prima ad Aarhus e poi a Odense, oltre la metà (circa 5.500) provengono da pazienti affetti da demenza, 1.400 da pazienti con una diagnosi di schizofrenia, mentre solo poco più di 400 da individui  bipolari e 300 da malati di depressione. Il contributo della collezione alla ricerca di nuove terapie e cure per queste malattie è innegabile, eppure risulta impossibile non interrogarsi sull’eticità di queste scoperte e sui limiti della scienza che tanto oggi quanto in passato non possono e non devono essere ignorati.

Il dilemma etico dello scontro tra tutela dei diritti dell’individuo e ricerca scientifica per il miglioramento della condizione dell’umanità

Una collezione come quella situata a Odense rappresenta un patrimonio scientifico dal valore inestimabile, una miniera di informazioni preziosa che hanno permesso l’avanzamento della ricerca sulle cause fisiologiche delle malattie mentali e dato un contributo eccezionale allo sviluppo di nuove cure e terapie, eppure nemmeno la sua capitale importanza a livello scientifico può cancellare l’evidente dilemma etico alla base della sua esistenza. Fino a che punto è infatti ammissibile la scelta di procedere con l’espianto degli organi dei pazienti senza averne prima ricevuto il consenso? Fino a che punto la ricerca di un bene collettivo può giustificare la sistematica violazione dei diritti e della dignità dell’individuo? E ancora, fino a che punto si può perdonare una scienza che non attribuisce né nomi né meriti a coloro che con il proprio corpo e la propria sofferenza hanno contribuito al progredire della ricerca?

Se è vero che la pratica di procedere all’espianto degli organi senza il consenso del paziente o dei familiari è oggi considerata una violazione inaccettabile dei diritti dell’individuo, casi come quello della collezione di cervelli danese ci mettono davanti all’urgenza di fare i conti con un passato recente nel quale la conoscenza scientifica è stata posta davanti alla dignità umana. Il nostro dovere come umanità e come comunità è allora quello di cercare di scoprire e raccontare le storie di coloro che, privati della possibilità di scegliere, con il loro corpo hanno contribuito alla costruzione di un patrimonio di cui beneficiamo tutti, provando per quanto possibile a offrire una qualche forma di giustizia postuma ai pazienti e alle loro famiglie.

Chiara Bresciani

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