È di ieri la notizia dell’arresto di tre professori torinesi, membri del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che lo scorso 24 dicembre sono stati trattenuti per una notte in una cella bulgara. I tre sono stati arrestati dalla polizia di frontiera mentre prestavano soccorso a tre migranti in condizioni critiche nei boschi bulgari vicini al confine con la Turchia. Nonostante l’impegno incessante di volontari e attivisti, la violenza dei confini continua a uccidere: pochi giorni fa, tre giovani migranti, tutti minorenni, sono stati trovati morti di freddo vicino alla cittadina di Burgas, vittime dei mancati soccorsi da parte della polizia e delle mortifere politiche migratorie europee.
La morte di tre minori egiziani sul confine bulgaro: una tragedia quotidiana col beneplacito delle politiche europee
Se si aprono le pagine social del collettivo rotte Balcaniche si possono leggere immediatamente un post: “Last updates from Bulgaria”. Le foto mostrano una distesa innevata che cattura immediatamente l’attenzione: in Bulgaria fa freddo, l’inverno porta temperature che la notte scendono sotto lo zero e la neve, in particolare nei boschi, si sedimenta sul terreno.
La rotta Balcanica è una via migratoria percorsa ogni anno da migliaia di persone in movimento dirette verso l’Europa. È difficile avere un quadro preciso dei numeri e monitorare le tragiche morti che avvengono ai confini balcanici, morti che si verificano con il beneplacito delle politiche europee a causa della negligenza dei soccorsi e della violenza delle polizie nazionali.
Il confine bulgaro è ad oggi tra i più violenti e mortiferi e ne è dimostrazione l’ultimo drammatico avvenimento di cui ha scritto il Collettivo Rotte Balcaniche. Attraverso un comunicato stampa pubblicato il sei gennaio, le volontarie e i volontari hanno raccontato dell’abbandono di tre minori da parte della polizia bulgara che ha anche impedito le operazioni di soccorso di attiviste e attivisti nei boschi attorno a Burgas, cittadina nel sud est della Bulgaria.
Durante le prime ore del mattino del 27 dicembre le squadre di soccorso del Collettivo Rotte Balcaniche e di NoNameKitchen, altra associazione presente da tempo sul confine tra Bulgaria e Turchia, hanno ricevuto segnalazioni di tre minorenni persi nei boschi a rischio morte per ipotermia. Nonostante le numerose segnalazioni al 112 nessun soccorso ha mai raggiunto i tre ragazzi e la polizia di frontiera bulgara ha sistematicamente bloccato i gruppi di attivisti che tentavano di raggiungere i tre minorenni di cui due già privi di sensi come si poteva vedere dai video condivisi con la posizione gps.
Così, il giorno seguente, le squadre di soccorso hanno trovato i corpi di Ali, 15 anni, Samir, 16 e Yasser, 17, morti congelati esattamente nel luogo segnalato dalla posizione condivisa con le squadre di soccorso e comunicata immediatamente al 112. In realtà, il terzo corpo è stato trovato il 29 dicembre, a 20 metri dalle coordinate gps, in parte dilaniato probabilmente dagli animali presenti nel bosco. I nomi utilizzati nel comunicato stampa del collettivo rotte balcaniche sono pseudonimi perché sono in corso in questi giorni le identificazioni dei tre minori.
Le autorità hanno deliberatamente ignorato le segnalazioni diventando così le dirette responsabili della morte di tre minorenni, abbandonati al gelo nei boschi bulgari. Tre ragazzi di origini egiziane che stavano percorrendo la rotta balcanica per arrivare probabilmente negli Stati dell’Europa centrale ma che invece sono morti di freddo abbandonati da tutti ma soprattutto da quell’Europa in cui cercavano un futuro nuovo, migliore. Quell’Europa razzista che invece li ha condannati a morte, una morte che sembra surreale nel 2024 in territorio europeo, ma che invece rientra nella norma di politiche di frontiera mortifere e disumane, una morte avvenuta a causa delle decisioni dei vertici UE e grazie alla collaborazione con le violente polizie di frontiera. Non ci sono scuse, non ci sono mezzi termini e non ci devono essere né spiegazioni né giustificazioni per questo accaduto. Spiegare, in questo caso, suonerebbe come un tentativo di giustificare le morti, le violenze e i respingimenti illegali che ogni giorno avvengono sui confini europei. Denunciare e indignarsi sono le uniche reazioni che dovrebbero essere accettate ora. E la denuncia è possibile solo grazie al lavoro di realtà come quelle del Collettivo Rotte Balcaniche o di NoNameKitchen, che quotidianamente soccorrono persone in movimento in pericolo, raccogliendo testimonianze e raccontando la realtà dei fatti attraverso le pagine social delle associazioni. Perché se non fosse per loro, sarebbero ancora di più le persone a rischio morte e sarebbero ancora di più le morti di cui non si saprebbe nulla, perché è nell’interesse di tutti, governi, polizie di frontiera e vertici UE, dimenticare quelli che sono omicidi e che avvengono sui confini europei. Perché queste non sono morti accidentali. Sono morti che si potrebbero evitare, sono morti che dovrebbero far vergognare tutti ma che invece passano in sordina. Anche a quando morire sono ragazzi di 15, 16 e 17 anni.
Sulla pagina Instagram del Collettivo Rotte Balcaniche, nel report pubblicato ieri, si legge infatti:
«Sulle risposte delle autorità sembrano esserci due sole spiegazioni possibili: o hanno visto e abbandonato le persone moribonde dopo averle trovato, oppure non hanno mai raggiunto le loro posizioni, pur avendo chiare indicazioni. Distinte impronte di stivali militari sulla neve intorno a uno dei corpi – poi cancellate quando al Polizia di frontiera ha dovuto recuperare il corpo- suggeriscono che degli agenti erano presenti nelle ore precedenti, ma non hanno soccorso la persona, forse quando poteva essere ancora salvata».
Una morte annunciata. O forse meglio, una morte voluta. Perché c’erano tutte le informazioni e tutte le possibilità per la polizia e il 112 di salvare i tre minorenni morti congelati. E invece, tutti gli sforzi della polizia sono stati votati all’impedimento dell’intervento delle squadre di soccorso, perpetuando violenze anche su attivisti e attiviste che cercavano di raggiungere i ragazzi.
Criminalizzazione della solidarietà sul confine bulgaro: l’arresto dei tre professori è solo l’ultimo avvenimento
Prima ancora del mancato soccorso ai tre minori morti di congelamento, gli attivisti del Collettivo Rotte Balcaniche avevano già subito ostacoli in un altro intervento, avvenuto pochi giorni prima. In quella occasione, si erano trovati ad assistere tre giovani marocchini in difficoltà nei boschi bulgari, uno dei quali in avanzato stato di congelamento. Ore trascorse nel bosco accanto ai tre giovani, spaventati dall’idea di essere lasciati soli in balia delle forze dell’ordine. Ore in “compagnia” della polizia di frontiera bulgara, che cerca di intimidire gli attivisti e i tre ragazzi, polizia che non permette nemmeno al ragazzo in condizioni più gravi di sedere in macchina. Ore in attesa dell’ambulanza che arriva ma che dopo un rapido controllo medico riparte vuota. Ore, alla fine delle quali, le attiviste e gli attivisti del Collettivo Rotte Balcaniche vengono arrestati.
«Condotti alla stazione di polizia di Malko Tarnovo veniamo reclusi in una stanza spoglia, molto sporca e con la finestra senza infissi e, quindi, impossibile da chiudere. Due di noi vengono interrogati, ma non ci viene rilasciato nessun verbale. Vogliono sapere chi ci dà le informazioni, se siamo una organizzazione e molte altre cose. Le condiscono con intimidazioni tipo “Qui in Bulgaria sappiamo come far tornare la memoria”, minacce di arresti per traffico illegale di migranti e provocazioni becere tipo “Voi aiutate? bene aiuta me, dammi cibo, dammi dell’acqua ora!” oppure “Voglio una macchina, perché non mi regalate una macchina?”. Ci chiedono di lasciare le impronte digitali e la foto segnaletica, ma ci rifiutiamo. Il fatto che non ci abbiano obbligato e che usciremo da quella caserma senza averle date, ci fa pensare che sia l’ennesimo abuso di un potere esecutivo sempre più indisciplinato alla legge (oltre che, neanche a dirlo, alla giustizia)».
Questa è la testimonianza dei quattro attivisti arrestati la notte del 24 dicembre dalla polizia di frontiera bulgara. Tre di loro sono professori torinesi, in Bulgaria durante le vacanze natalizie, che si sono dichiarati sereni in seguito alla vicenda.
«Siamo abbastanza sicuri di aver salvato stanotte tre persone e di aver dovuto fare un po’ di galera per questo. Oggi, in Europa, va così. Siamo sereni».
I soprusi e le detenzioni arbitrarie di attiviste e attivisti sono un’altra realtà quotidiana sui confini europei. La criminalizzazione della solidarietà è particolarmente stringente sul confine bulgaro: il caso dei tre professori è infatti l’ultimo avvenimento di un lungo elenco di soprusi avvenuti nel 2024. Stessa sorte è infatti capitata ad alcuni attivisti, questa volta di NoNameKitchen, il 29 dicembre, la quinta volta dall’inizio dell’anno. Queste azioni mirano a ostacolare il soccorso di persone in pericolo di vita, condannando chi si trova in difficoltà lungo il confine bulgaro. Una violenza che si potrebbe definire gratuita, volta a soffocare ogni scintilla di umanità e a impedire qualsiasi forma di presidio umanitario sulla rotta balcanica. Una rotta che, specialmente in inverno, si trasforma in un luogo estremamente pericoloso e mortale per chi la attraversa.
La disumanità sui confini europei: i respingimenti illegali al confine bulgaro
Fortezza Europa. È così che è stata descritto a lungo il territorio europeo chiuso in se stesso grazie al sistema di gestione dei confini, in particolare esterni, europei. Una locuzione ormai in disuso, non più impiegata in particolare in ambito accademico perché superata da altre definizioni che meglio descrivono la semi-permeabilità dei confini europei. Perché i confini europei continuano a venire superati da persone in movimento per arrivare in Europa centrale, grazie all’estrema creatività e capacità di riorganizzarsi dei flussi migratori. A causa delle politiche di frontiera europee, la rotta balcanica si è infatti più volte riconfigurata, ottenendo come risultato una molteplicità di percorsi che si snodano attraverso questi territori. Questi cambiamenti si inseriscono nel contesto dell’aumento dei pushback lungo i confini europei: quando uno Stato intensifica i controlli e i respingimenti violenti, i flussi migratori trovano altre vie per incanalarsi. Tuttavia, all’aumentare dei numeri, anche queste nuove rotte finiscono inevitabilmente per essere militarizzate. Oggi, il confine bulgaro, in particolare quello che separa la Bulgaria dalla Turchia, è tra i più attraversati e anche tra i più violenti. Associazioni come il Collettivo Rotte Balcaniche e NoNameKitchen si trovano su quel confine, come su molti altri, per prestare soccorso ma anche per testimoniare le violenze perpetuate sulle persone in movimento. Per denunciare gli abusi della polizia bulgara e di Frontex, agenzia europea compartecipe di tali violenze. Per raccontare delle morti su confine, morti che altrimenti l’Unione Europea sarebbe ben contenta di dimenticare. Per denunciare politiche di frontiera che condannano alla morte ogni anno uomini, donne e bambini costretti ad arrivare in Europa in maniera “irregolare”. Eppure, dopo anni di testimonianze e denunce delle violazioni dei diritti umani sul confine bulgaro, la Bulgaria è appena entrata all’interno dello Spazio Schengen.
Il messaggio è chiaro: certe morti non hanno peso. Le vite di tre adolescenti, le vite di Ali, Samir e Yasser sono evidentemente sacrificabili in nome di quelle politiche di frontiera che l’Unione Europea porta avanti con orgoglio. La conclusione va lasciata ancora una volta alle parole del Collettivo Rotte Balcaniche:
«Le politiche migratorie europee stanno trasformando le frontiere di terra e di mare in veri e propri tritacarne autorizzati, che mettono le persone in pericolo e poi ne omettono il soccorso, rendendosi di fatto dirette responsabili della loro morte. Queste politiche hanno ucciso Ali, Samir e Yasser, così come decine di migliaia di individui alle frontiere europee negli ultimi vent’anni, e ne uccideranno molti altri se non verranno fermate».