Andrea Umbrello
Direttore Editoriale di Ultima Voce
La collaborazione tra Turchia e Israele è un esempio lampante di come la retorica politica possa spesso mascherare la realtà economica. Nonostante le critiche pubbliche, i due paesi continuano a collaborare attivamente in diversi settori economici. L’incoerenza tra le parole e fatti del leader turco Erdogan solleva interrogativi sulle reali priorità dei governi coinvolti.
Nel dedalo delle relazioni internazionali, dove politica, economia e umanità si intrecciano, un’inquietante contraddizione avvolge il commercio tra Turchia e Israele. Da un lato, la cooperazione economica tesse una fitta tela di interessi comuni, promettendo prosperità e sviluppo. Dall’altro, l’ombra della repressione del popolo palestinese nella Striscia di Gaza, così come in Cisgiordania, getta una luce sinistra su questa collaborazione, sollevando interrogativi sulla coerenza etica e politica di entrambe le nazioni.
L’attuale presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si è distinto per la sua retorica critica nei confronti di Israele, condannando pubblicamente le azioni militari israeliane contro Gaza come “genocidio” e definendo Israele un “criminale di guerra”. Ma c’è una discrepanza evidente tra le parole di Erdogan e le azioni della Turchia.
Nel pieno di un acceso dibattito diplomatico che vede la Turchia condannare le azioni di Israele contro il popolo palestinese, si cela una realtà sorprendente: la collaborazione tra Turchia e Israele sta vivendo un periodo di fioritura senza precedenti. Mentre il presidente Erdogan si mostra pubblicamente solidale con il popolo palestinese, dietro le quinte, molte delle attività commerciali sono gestite da società legate a gruppi sostenuti dal governo turco, come l’Associazione degli industriali e degli uomini d’affari indipendenti (MUSIAD).
L’accordo di libero scambio del 1996 tra Turchia e Israele ha creato una base solida per lo sviluppo delle relazioni economiche bilaterali. Nonostante le tensioni politiche che emergono periodicamente, soprattutto a seguito di eventi come l’incidente della Mavi Marmara, quando un commando israeliano prese d’assalto una nave umanitaria battente bandiera turca uccidendo operatori umanitari, il commercio tra i due paesi continua a crescere costantemente.
Uno degli aspetti più rilevanti di questo intreccio commerciale riguarda l’industria siderurgica. La Turchia, infatti, fornisce il 65% delle importazioni di acciaio di Israele, con aziende come l’ICDAS, affiliata a MUSIAD, che svolge un ruolo chiave in questo flusso commerciale. Ma c’è di più dietro questa transazione: una parte di questo acciaio viene di fatto impiegata per la produzione di munizioni, alimentando indirettamente il conflitto in corso nella regione.
L’acciaio, però, è solo la punta dell’iceberg nella collaborazione tra Turchia e Israele! Israele non solo si affida alla Turchia per il 65% del suo fabbisogno di acciaio, ma è anche in gran parte dipendente dalle sue esportazioni di cemento, con aziende turche che coprono fino al 95% del mercato israeliano. Questi legami commerciali non si traducono solo in un vantaggio economico per la Turchia, ma le conferiscono anche un potere di negoziazione considerevole sulla scena internazionale.
Nonostante le pressioni interne ed esterne per porre fine a questo commercio, il governo turco difende con tenacia questa relazione economica. MUSIAD, nonostante le critiche, continua a giustificare le sue attività commerciali con Israele, promettendo di esaminare le accuse dietro le quinte mentre le esportazioni continuano senza sosta.
Ma perché questa discrepanza tra le parole e le azioni del governo turco? La risposta si trova nell’intricato gioco di equilibri che Erdogan orchestra con abile maestria. Da un lato, il presidente turco tesse una tela di relazioni diplomatiche con i potenti del mondo, stringendo legami con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, pur non rinunciando a difendere con fermezza le posizioni della Turchia sulla scena internazionale. Dall’altro lato, Erdogan si destreggia tra le insidie della politica interna, dove la repressione del dissenso si scontra con le aspirazioni democratiche di una parte della popolazione.
In un contesto di crisi economica e instabilità regionale, Erdogan si muove come un funambolo sulla corda tesa tra le esigenze del suo popolo e le pressioni esterne. La sua abilità politica viene messa alla prova ogni giorno, mentre cerca di mantenere il sostegno interno e di rafforzare il ruolo della Turchia nel mondo.
La discrepanza tra le parole e le azioni del governo turco, quindi, può essere spiegata con le complesse sfide che Erdogan deve affrontare. Il presidente turco si trova in un equilibrio precario tra le pressioni interne e internazionali, e la sua priorità è quella di mantenere la stabilità del paese.
Per Erdogan, mantenere un equilibrio tra interessi politici ed economici risulta essere cruciale per la stabilità del suo governo e del paese nel suo complesso. E così, nonostante le proteste e le critiche, la collaborazione tra Turchia e Israele continua a prosperare, offuscando la linea tra retorica politica e realpolitik economica.
Il prospero commercio derivante dalla collaborazione tra Turchia e Israele solleva questioni urgenti che non possono essere ignorate. Da un lato, Erdogan si erge a paladino dei diritti umani, condannando con veemenza le azioni di Israele. Dall’altro, il suo governo intrattiene relazioni commerciali fiorenti con lo stesso paese che critica, alimentando di fatto il conflitto in corso nella regione.
È un gioco di ombre e di ipocrisia, dove le parole non coincidono con i fatti. Le accuse di Erdogan contro Israele suonano come vuote retoriche di fronte all’evidenza dei traffici commerciali che avvengono sotto il suo stesso naso.
La discrepanza tra le parole e le azioni del governo turco è un pugno nello stomaco per chi crede nella coerenza e nei valori umanitari. Come può il presidente turco predicare la difesa dei diritti umani mentre, sottobanco, sostiene un regime che li viola sistematicamente?
La collaborazione tra Turchia e Israele rappresenta un esempio lampante di come la politica possa essere piegata a interessi egoistici e di potere. La sofferenza della popolazione e la stabilità della regione sono sacrificate sull’altare di ipocrisie e opportunismi.