Il critico George Wilson Knight fu il primo a postulare l’esistenza di una “piccola Divina Commedia”, un trittico di opere di Samuel Taylor Coleridge che, lette in successione, tracciavano un itinerario analogo a quello percorso da Dante nel suo capolavoro di circa cinquecento anni prima.
Poeta, critico letterario e filosofo, Coleridge è ricordato, insieme all’amico William Wordsworth, come l’iniziatore del Romanticismo inglese. La lettura delle sue opere all’interno di questa poetica ne restituisce l’immagine di un autore visionario, un “profeta della Natura”, desideroso di dar voce a ideali di bellezza, verità e libertà. Come si può pensare, allora, di far combaciare i tratti di un autore del XVIII sec. con quelli di Dante, il nostro sommo poeta, un uomo figlio del suo tempo e così intriso di valori medievali?
La cupola stellata
L’opera di Knight in cui si avanza l’audace considerazione porta un titolo molto affascinante: “The starlit dome” – La cupola stellata. Non c’è immagine più adatta per intestare un lavoro sulle poetiche della visione; la suggestione di un cielo evocato nonostante le limitazioni dello spazio. È proprio facendo uno sforzo di astrazione, che liberi tanto Dante quanto Coleridge dalle strutture storiche e letterarie con le quali generalmente li si legge, che i due autori si avvicinano insospettabilmente.
Fu Flaubert a suggerire, non senza una buona dose di ironia, che Dante, al momento della sua morte, non dovrà essersi sorpreso molto nel trovare che Inferno, Purgatorio e Paradiso erano ben diversi da come li aveva descritti. Un’affermazione del genere, pur nelle sue sarcastiche implicazioni, suggeriva una grande verità. L’opera di Dante non è un testo nel quale si analizzano gli spazi dell’ultramondano, il suo cuore non risiede nel racconto dei territori ultraterreni. Come ebbe modo di sottolineare lo stesso figlio di Dante, Jacopo Alighieri, a cui dobbiamo la sistemazione dell’opera paterna, la Divina Commedia parla innanzitutto dell’uomo.
Nello specifico, ci si riferisce all’uomo come colpevole nella prima parte, all’uomo come penitente nel Purgatorio, alla sua redenzione nel Paradiso. Se l’intento di Dante è stato quello di trovare il modo più esatto per descrivere gli stati dell’animo di peccatori, pentiti e beati, allora il suo risultato non è davvero diverso da quello raggiunto da Coleridge.
La “piccola Divina Commedia” di Coleridge
Christabel è una ballata narrativa a cui Coleridge si dedicò a lungo nella sua vita. La creazione letteraria dovette costargli molta fatica se vi attese inizialmente nel 1797 per poi riprendere in mano l’opera una decina di anni dopo, e infine abbandonarla perché incapace di concluderla in modo soddisfacente.
Christabel è l’eroina della vicenda. Fidanzata con un uomo che l’ha lasciata per partecipare alle Crociate, la fanciulla vorrebbe recarsi a pregare per l’incolumità dell’amato quando si imbatte in una dama bellissima. La dama le chiede aiuto e Christabel la porta a casa facendosi accompagnare nella cappella dove vorrebbe pregare. Qualcosa di oscuro sta per accadere, il lettore lo può avvertire distintamente. Durante la notte, Christabel sente qualcosa che le fa capire che la donna è uno spirito demoniaco. Vorrebbe parlarne col padre, ma un incantesimo glielo impedisce. Il clima di tensione aumenta parimenti al sentimento di terrore finché l’opera non si interrompe.
La ballata del vecchio marinaio è il capolavoro di Coleridge, il suo testo più celebre. C’è un matrimonio che sta per essere celebrato, tre giovani si stanno recando in chiesa quando un anziano marinaio li ferma costringendoli ad ascoltare la sua storia. Le vicende narrate dall’uomo, intrise di simbolismi e visionarie descrizioni, approdano fino al momento in cui il tempo della storia arriva a coincidere con quello del racconto. La condanna alla quale deve sottostare il vecchio marinaio consiste proprio nel vagare in eterno sulla terra raccontando la propria vicenda a tutti coloro che incontra, fino al giorno del giudizio universale.
Kubla Khan è il poema che completa il nostro percorso tematico all’interno della produzione del grande autore inglese.
Il testo ha una genesi davvero originale. Colerige raccontò di essersi ammalato e di aver ricevuto come prescrizione dal medico una dose di oppio. Sotto l’effetto della droga e suggestionato dalle recenti letture sull’imperatore Kubla Khan, lo scrittore fece un sogno dai tratti vividissimi. Sognò la costruzione del palazzo del sovrano cinese, la cui edificazione avveniva grazie a un architetto d’eccezione: la musica. Ad accompagnare la melodia, Coleridge udì anche una voce che recitava un poema di un centinaio di versi. Al risveglio, l’autore iniziò subito a mettere su carta le parole dell’opera ma, dopo aver scritto quasi una settantina di versi, ricevette una visita. Le chiacchiere del contadino che lo era andato a trovare lo distrassero dal suo intento e, quando si congedò da lui, Coleridge realizzò di non ricordare la fine del poema udito in sogno.
I versi che ci sono giunti raccontano di un giardino meraviglioso, costruito su un abisso, dalle caratteristiche spettacolari. La musicalità e l’armonia del testo sono ciò che lo rendono un capolavoro, la cui bellezza è tanto più apprezzabile se lo si legge in quella lingua preziosissima con la quale ce lo ha consegnato l’autore.
Coleridge e Dante: l’eterno ritorno
Christabel, La ballata del vecchio marinaio e Kubla Khan, sono tre opere scritte indipendentemente l’una dall’altra. Eppure, i testi sono percorsi da un fil rouge che li lega non solo tra loro ma anche alle tradizioni letterarie precedenti. Ciò non dipende dal sapore arcaico delle storie o dalle tecniche narrative impiegate, ma dalla profonda attenzione verso temi universali che non smettono di affascinare l’uomo da secoli.
Che l’idea del male, dell’orrore, prenda le forme di un Inferno dantesco precisamente strutturato secondo tradizione o quello di una bellissima dama poco importa. Il senso di angoscia, oppressione, terrore, che percorre luoghi e tempi delle narrazioni fa degli spazi di Christabel un Inferno pari a quello di Dante. Stessa cosa si può dire per ciò che riguarda l’espiazione purgatoriale del vecchio marinaio e il Paradiso dai tratti esotici di Kubla Khan.
Due autori lontanissimi per cultura, storia, età, come Coleridge e Dante, sono avvicinati dal comune interesse verso l’uomo e la sua dimensione più intima. La “piccola Divina Commedia” di Coleridge riflette lo sguardo di un’altra epoca su un tema eterno quale è il destino dell’uomo.
Che i tempi si evolvano ma alcuni interrogativi rimangano inalterati è qualcosa di affascinante e misterioso. L’intrigo è ancora più avvincente quando anche le risposte avanzate sui grandi interrogativi della vita si assomigliano tra loro, lasciando udire ai lettori di ogni epoca l’autentica voce dell’arte, che ci parla attraverso echi, forse confusi ma costanti, che si susseguono suggerendo idee sul nostro destino.
Martina Dalessandro