Il Club 27 torna protagonista con una mostra a Bologna

Che cosa viene in mente quando si parla di Club 27, anzi Club J 27?

Non si tratta di un qualche storico locale d’intrattenimento newyorkese, né di una balera della riviera romagnola.

Il Club 27 è diventato il sinonimo, più che altro giornalistico, con il quale raccontare una storia tanto affascinante quanto inquietante, quale quella del Rock.

Viene fuori come il collante simbolico che riunisce alcune delle più grandi personalità della musica rock, si incrocia alla descrizione su come il destino fatale si è scagliato contro di essi alla medesima età: 27 anni.

Club 27

In realtà quest’oscuro Club 27 comprende anche artisti al di fuori della musica contemporanea: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Janis Joplin, ma anche l’artista Jean-Michel Basquiat, per poi arrivare ai tempi relativamente recenti, con Kurt Cobain e infine Amy Winehouse. Tutti grandi artisti; stelle di prima grandezza, accomunate da uno stile di vita fatto di eccessi e dallo stesso tragico destino, il cui linguaggio ha però influenzato diverse generazioni.

 

A questo mondo parallelo che ha scandito la parte oscura del rock’n’roll, è dedicata una mostra collettiva, che partirà oggi stesso, presso la galleria Ono Arte di Bologna, fino al 24 febbraio.




L’esposizione cercherà di esplorare, attraverso l’iconoclastia dell’epoca, come il Club 27 sia riuscito a diventare un “mito”, in quanto è riuscito a consacrare definitivamente la vita e la carriera di questi artisti, i quali adottarono quasi istintivamente la filosofia kerouackiana di vivere la vita come una corsa in autostrada.

In realtà alla sorte di ognuno di essi è legato un mistero, tanto seducente quanto oscuro, che per anni è stato giustificato, troppo tempestivamente, con l’abuso di droghe e alcol.

L’ipotesi che i decessi siano avvenuti alla stessa età ha portato addirittura a ipotizzare una sorta di “picco statistico” nel periodo compreso fra il 1967 e il 1971.

Anche sul nome Club J 27 vi è un’ombra di mistero, mai completamente svelato: la nomenclatura giornalista ufficiale attribuisce la lettera J per indicare come ognuno degli artisti, morti a 27 anni, avesse una J nel nome o cognome; questa tesi muore nel 1994, quando entrano nel Club Kurt Cobain e nel 2011 Amy Winehouse.

Negli anni però ulteriori indizi hanno rivelato una realtà ancora più inquietante della semplice coincidenza anagrafica.

Qualcuno ipotizzò che Club J 27 fosse il nome di un’operazione segreta della CIA, per “eliminare” alcune delle celebrità scomode al potere, a causa dell’impatto visivo e comunicativo che avevano sui giovani; personaggi in grado di influenzare grandi masse a sollevarsi contro il governo, le lobby o massoneria. La lettera J in questo caso deriva dal nome della figlia 14enne di un alto esponente dei servizi segreti, morta durante un concerto rock; l’operazione in questo caso deriverebbe da una sorta di vendetta personale per quella musica “diabolica” che stava stravolgendo il mondo.




Si tratta ovviamente d’ipotesi mai accertate, ma quello che hanno scatenato non è il solito complottismo da tastiera, tanto caro ai giorni nostri, bensì un’analisi approfondita sulle singole cause di ogni singolo personaggio. Ciò ha messo in luce una serie di strane congetture che hanno favorito l’apertura di nuove indagini.

Come fu per il caso di Marlyn Monroe e James Dean, anche per Brian Jones, affogato nella sua piscina nel 1969, si torna a parlare di omicidio. L’indagine verte sui due elettricisti che stavano effettuando dei lavori nella sua villa di Hartfield e che si scoprì essere due agenti; in più le cause dell’annegamento rimangono un mistero, dal momento che il polistrumentista dei Rolling Stones si stava disintossicando ed era un esperto nuotatore e apneista.

Un caso analogo riguarda anche Jimi Hendrix e Kurt Cobain, le cui indagini sono in corso.

Tra vizi e virtù, gioie e dolori, libertà e illusione, il mondo del rock si è nutrito di questi miti anche grazie alla legenda del Club 27 e il fatto di continuare a parlarne, attraverso un libro o una mostra, potrebbe aiutare a mettere in luce nuove e straordinarie conclusioni, dimostrando che vecchi e nuovi miti hanno ceduto alla tentazione di sentirsi liberi, attraverso il controllo mentale e fisico del leader.

Non si tratta di condannare ovviamente la musica e i suoi eccessi, ma solo relegare questi ultimi al ruolo che meritano, mettendo in risalto definitivamente, il grande messaggio universale che la Popular Music ha avuto sui cambiamenti della società e magari non accostare una grande storia ai nuovi burattini tatuati della mondializzazione, devoti unicamente al sacro verbo dei Likes, dei denti d’oro e dell’Auto-Tune.

Fausto Bisantis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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