Cloud seeding: pratica inefficiente o alternativa possibile?

cloud seeding

I recenti accadimenti a Dubai hanno riacceso l’attenzione sulla pratica del cloud seeding, ponendo attenzione su luci e ombre del processo, accostando qua e là informazioni e definizioni non sempre veritiere e correlando forse all’eccesso questo strumento in relazione alle recenti alluvioni. Facciamo quindi un passo indietro: che cos’è e come funziona la cosiddetta “inseminazione delle nuvole”?

Cloud seeding e siccità, questo è il primo accostamento che viene rilevato in media quando si volge uno sguardo online a proposito dell’argomento. In realtà, però, il cloud seeding è uno strumento di supporto pensato per rinforzare le precipitazioni e, di conseguenza, efficace soltanto quando sono già naturalmente presenti delle nubi in grado di manifestare delle precipitazioni atmosferiche.

Come funziona il cloud seeding?

Lo studio sul cloud seeding nasce da un’osservazione di ciò che compone le gocce di pioggia. Sappiamo infatti che esse per formarsi hanno bisogno di un elemento capace di attrarre e legare il vapore acqueo: il nucleo di condensazione. Possono fungere da nuclei di condensazione particelle di varia natura come la polvere, di origine naturale, o sostanze inquinanti, derivate dall’attività umana.

Secondo la teoria del cloud seeding, applicando a questo processo un intervento artificiale che miri ad aumentare la disponibilità di queste particelle nelle porzioni atmosferiche interessate da nubi, dovrebbe crescere la possibilità dell’intensificarsi delle precipitazioni possibili, determinate dal clima.

Quali particelle vengono impiegate nel cloud seeding?

Solitamente, questo strumento vede l’impiego di due tipi di particelle differenti: ioduro di argento e CO₂ allo stato solido (vale a dirsi, ghiaccio secco).

In entrambi i casi, si stima che queste specifiche particelle sarebbero in grado di legarsi alle particelle d’acqua presenti nella nube, favorendo quindi una conseguente condensazione.

La distribuzione di queste sostanze avviene via aerea, con dei velivoli dotati delle strumentazioni preposte, durante quelle che vengono definite delle “missioni di cloud seeding”.

Rischi e opportunità

Definito quindi che il cloud seeding non è una pratica direttamente implicata nella formazione di nubi e che, pertanto, non può svolgere il ruolo di principale risposta ai problemi di siccità, occorre analizzare anche qual è il bilancio effettivo fra i rischi e i benefici che questa attività potrebbe comportare.



La Weather Modification Association ha pubblicato già da oltre un decennio uno statement in cui sono stati valutati i possibili effetti nocivi derivanti dall’utilizzo di ioduro d’argento concludendo che, come descritto dalla letteratura scientifica presa in analisi, non stati osservati effetti dannosi per l’ambiente.

Non vi sono certezze, tuttavia, riguardo i possibili risvolti rilevabili nel tempo a proposito della penetrazione di questa sostanza nei terreni e nelle falde acquifere a seguito dell’impiego costante in relazione alle precipitazioni.

D’altro canto, ragionando sull’efficacia dello strumento, ci sono ancora delle difficoltà nel comprovare concretamente che questo tipo di interventi possano realmente incrementare la densità delle precipitazioni; pertanto, il rapporto fra questa tecnica e gli eventuali fenomeni metereologici estremi è da considerarsi ad oggi non dimostrabile.
Per quanto riguarda l’efficacia della tecnica, pare che stiano iniziando a emergere report e dichiarazioni, generalmente connesse agli istituti di ricerca implicati nell’ambito, che sosterrebbero un aumento del volume delle precipitazioni di circa il 20-30%. Ma, come detto poc’anzi, l’assoluta dimostrabilità del successo di questa tecnica non è ad oggi unanimamente comprovata.

Prendendo in considerazione, ad esempio, le pubblicazioni dell’UAE Research Program for Rain Enhancement Science, apprendiamo che il Centro Nazionale di Meteorologia degli Emirati Arabi Uniti dichiara di puntare alla messa a punto di una nuova iniziativa volta a migliorare la sicurezza idrica nelle aree aride e semi-aride di tutto il mondo.
Consci che da una parte le risorse idriche stiano diventando sempre più limitate, a fianco di una richiesta crescente, è comprensibile che alcune società, specialmente allocate nelle aree del mondo più aride, stiano investendo in questo genere di sviluppo.

Un po’ di storia

In Serendipity, Scientific Discovery and Project Cirrus, una lettura redatta dal meteorologo Duncan C. Blanchard ad Albany, nello Stato di New York, è interessante apprendere come la svolta a proposito degli studi sul cloud seeding, già in corso agli inizi degli anni ’40, trovarono una svolta nel ’46, a seguito di un’illuminazione avuta dal chimico e meteorologo Vincent Joseph Schaefer al rientro da una scalata dal Monte Washington. Seguirono plurimi tentativi, introducendo particelle delle più disparate sostanze all’interno delle nubi di vapore raffreddato realizzate artificialmente in alcune box di raffreddamento, finché lo studioso notò che l’introduzione del ghiaccio secco scatenava un importante aumento di umidità all’interno delle nubi.

Mesi dopo la scoperta di Schaefer, il climatologo Bernard Vonnegut, che in un’altra sezione del Laboratorio di Ricerca della General Electric stava studiando il superraffreddamento dello stagno, scoprì che le particelle di ioduro d’argento avevano delle caratteristiche tali da renderle ottimi nuclei per la formazione di cristalli di ghiaccio.

Da allora, affinata la tecnica sino ad oggi, possiamo affermare che quella dell’immissione di particelle di ioduro d’argento sia ancora una delle modalità più diffuse.

Non sono gli Emirati Arabi Uniti

Come abbiamo visto, si tratta di una tecnica che fonda le sue origini in studi e scoperte risalenti alla prima metà del secolo scorso e non soltanto gli Emirati, con in testa Dubai, hanno sviluppato delle missioni di cloud seeding. Si stima infatti che sia gli Stati Uniti che la Cina ricorrano a questa tecnica, sia per incrementare le risorse idriche utili all’agricoltura, sia per promuovere un miglioramento dell’aria nelle zone altamente interessate dall’inquinamento.

Naturalmente, non sarebbe nemmeno necessario puntualizzare che questa tecnica non ha niente a che vedere con le cosiddette “scie chimiche”, che altro non sono che il vapore acqueo prodotto dalla condensa al passaggio degli aerei.

In prospettiva di un ambiente sicuro ed equilibrato, sarà forse opportuno continuare a guardare in direzione di uno sviluppo mirato al miglioramento degli approvvigionamenti idrici con, al contempo, fiducia e cautela.  

Stefania Barbera

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