Ci eravamo lasciati con un’uscita di scena frettolosa e maldestra da parte del miliardario tanto temuto da democratici e non solo, eppure oggi la situazione si presenta ben diversa e il secondo confronto presidenziale non può che destare nuovamente l’attenzione del mondo intero.
Le premesse risultano essere poco edificanti dal punto di vista politico, stando al centro dell’attenzione quel chiacchiericcio da bar riguardante i tradimenti di Bill ad Hillary nel passato coniugale, nonché il video scandalo diffuso nelle 48h precedenti, che raffigura un Donald dal linguaggio rude, crudo nei confronti delle donne, ricco di frasi misogine, con delle considerazioni che lasciano a desiderare, fortemente sessiste e che certo non rappresentano quello che un papabile presidente dovrebbe utilizzare.
Bando al gossip sui candidati, forse la notizia più destabilizzante, è la diffusione di ulteriori email incriminanti per la Clinton. Ma Trump preferisce il dramma emotivo come sempre e cerca di scagliare l’orda mediatica a cui è sottoposto verso Hillary, marciando sugli abusi di Bill e la posizione di denigrazione mantenuta nei confronti delle donne coinvolte dalla democratica.
Un gioco poco funzionale di fronte a un video dall’impatto ben più ampio.
Si perde di vista, all’apparenza, forse l’unica vera arma di forza di Trump: l’appartenenza della Clinton all’establishment del passato, ormai marchio di lontananza rispetto alla gente comune. Motivo alla base della vincita populista durante le primarie repubblicane e che il candidato sembra aver perso di vista, abbandonando così il suo vero, unico punto di forza.
Desta poi particolare interesse l’endorcement dato ad Hillary da parte di molti giornali tradizionalmente repubblicani, una notizia che in realtà potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, sancendo sempre di più quella distanza netta rispetto al popolo.
Ma si apre il confronto. La differenza che salta subito all’occhio è l’abbigliamento stavolta più coerente al colore
politico rappresentato. Non vi è traccia della leonessa rossa
da capo a piedi e la cravatta di Trump, dal candido blu, ostenta nuovamente il vivido colore repubblicano.
Nessuna stretta di mano, la tensione è evidente. I candidati si danno immediatamente le spalle e sarà solo al termine di 90 minuti di colpi bassi che ci sarà una stretta di mano tra i due.
Presentazione e via alle domande. Due minuti concessi per ogni risposta. Due minuti che non saranno rispettati in particolar modo da Trump, che interrompe e si trova sfiancato rispetto alle rigide tempistiche del secondo confronto.
Senza soffermarsi sulle prime domande, un sicuro e apparentemente più tranquillo Donald viene subito turbato dagli scomodi quesiti rispetto al video scandalo datato 2005. La rigidità della figura è evidente, una rigidità che, tolta la parola, gira intorno a se stesso, segue la sua avversaria e pare spaesata dal contesto generale nel momento in cui Hillary prende parola.
E lei ne approfitta, gioca sorprendentemente la carta emotiva, da donna per le donne, sottolineando subito come il repubblicano non sia adatto a fare il Presidente.
La replica è interrotta e la domanda ripescata dal web va nuovamente sul piano personale. A che Trump tira in ballo gli adulteri di Bill. Ma il nervosismo gioca a suo svantaggio, facendogli perdere quota e posizioni.
Cade a picco, ma non si schianta. Perché anche se il confronto è nuovamente vinto da Hillary, toccherà aspettare il prossimo 19 ottobre, data dell’ultimo duello prima delle elezioni di novembre, per iniziare a fare qualche supposizione in più.
Tutto può succede e l’affondo non è così marcato. Ma torniamo a noi.
L’inizio di quel che si temeva essere un imbarazzante confronto che dimentica i problemi del Paese tirando in ballo vicende di basso livello ha inizio e la protagonista è la volgarità sagace e poco razionale di Donald.
E lì, a confronto iniziato da poco più di mezz’ora, il colpo basso della democratica, la quale con nonchalance dopo l’insistenza di Trump sulle vicende personali, nonostante l’intervento dei modulatori, esordisce con un “so che la tua compagna sta attraversando un momento difficile e che molte persone all’interno del tuo partito ti stanno abbandonando, ma è arrivato il momento di concentrarsi sui problemi della gente.”
Se c’è una frase simbolo della vittoria democratica al confronto, è proprio questa, che traccia, delinea, marchia il vuoto programmatico repubblicano. La professoressa sgrida l’alunno e richiama l’attenzione sugli argomenti, tralasciando scuse e giustificazioni. E d’altronde non è il gossip a far politica.
Vedete, il nervosismo evidente, denigrato dai modulatori stessi del dibattito, fa risaltare l’evidente superiorità e la pacata dialettica (più adatta ad un duello) della Clinton, mettendo in luce, come nel primo caso, le differenze tra i due.
Attaccare senza idee non basta, forse è questo il sunto del confronto. E il programma spoglio, arido di Trump ne esce dilaniato senza la calda folla acclamante.
Si evidenzia il tutto in tema sanità, che vede una chiara e trasparente Hillary esaltare l’Obamacare, rilanciando un miglioramento dello stesso, ma mantenendo il modello della più ampia assistenza sociale.
Trump da parte sua, il quale aveva preannunciato di voler abrogare la legge, si svincola dalla spiegazione del come realizzare la riforma che vorrebbe mettere in atto sul piano sanitario se venisse letto.
Vuoto ideologico, ancora una volta.
E si passa allo scottante tema Islam, esattamente alla tutela delle minoranze islamiche negli States in un clima di diffusa xenofobia. In questo contesto, il razzismo regresso del repubblicano, non lo aiuta, e la sua risposta lascia il tempo che trova.
Tra minacce di galera, imbarazzanti per il partito, e nuovo scontro sul tema Siria e i rapporti con la Russia, che tracciano le differenze ideologiche in materia estera, già palesate al primo confronto, il tycoon rimane comunque in corsa, per quanto molto più indebolito.
D’altronde lo ammetterà anche lui, “Hillary è una combattente, non si arrende mai.”
Di Ilaria Piromalli