Rosso che incontra il blu ed è già duello.
Il confronto politico più atteso è arrivato, sotto la moderazione di Lester Holt, giornalista NBC, precedentemente accusato da Trump di essere di parte nelle sue considerazioni, “democratico”, una delle uscite imbarazzanti del candidato nonché totalmente inesatta considerando che Holt è un repubblicano dichiarato, con toni che certo non sono risultati inaspettati alla platea dell’Auditorium della Hofstra University di Hepstead, nello stato di New York, e i più di 100 milioni di spettatori previsti che in effetti sfiorano i record.
Molti l’hanno definito come un dibattito epocale e c’è una ragione alla base di questa valutazione aurea. La condizione della campagna elettorale vede un testa a testa sullo sfondo della caccia a quei punti percentuali che potrebbero garantire la vittoria. Ed il duello televisivo, in tutto ciò, si inserisce dopo anni, dopo quel celebre confronto tra Kennedy e Nixon, come il momento della verità, alla fine del quale forse l’alone di mistero che aleggia attorno alle elezioni del prossimo 8 novembre potrebbe finalmente lasciare spazio a qualche supposizione di rilievo per i sondaggi, da portare alla luce.
Il duello per gli indecisi insomma.
90 minuti, senza pubblicità né tanto meno interruzioni. L’obbligo di silenzio per la platea: no a commenti o ad applausi, un elemento che stride con le piazze calorose e chiassose di Trump, un clima forse più concorde alla diplomazia ed eleganza democratica, sebbene i commenti talvolta ironici della Clinton abbiano difficilmente fatto trattenere le risate. Dall’inizio alla fine.
Diplomazia e considerazione della realtà pratica contro fanatismo e una scarsa cognizione di ciò che la politica interna e soprattutto la politica estera realmente sia. Perché ciò che emerge dal confronto è questo, un’ala democratica che propone delle riforme più vicine allo stato sociale, frutto di quell’incontro in sede di Convention con la faccia socialista, fresca e tifata dai giovani di Sanders, un programma di politica estera, criticabile, ma un programma, che non ruoti unicamente intorno all’interesse commerciale e un richiamo a quei posti di lavoro rubati che tuttavia non si sa bene ancora come potrebbero essere recuperati al di fuori della chiacchiera e del vocione elettorale.
La demagogia del miliardiario in confronto alla cognizione pratica della first lady, agli occhi di chi ha saputo guardare e chi ha avuto le orecchie per ascoltare, ha perso. Ed il ridicolo sotterfugio del grido populista senza una piazza fomentata dall’adrenalina perde la sua ragion d’essere. Perché il qualunquismo senza una folla in fermento, si rivela per ciò che è: vuoto.
Il nervosismo si legge nella faccia dell’outsider, si presenta in frasi talvolta sconnesse, dopo il richiamo di Hillary alla Dichiarazione dei Redditi. La risposta di Trump sulle tasse con un “perchè sono furbo” finale desta tra l’altro notevoli critiche.
La preparazione della Clinton splende di fronte alla poca cognizione di Donald. Respiro più forte, voce più alta, nel mentre del sorriso a sinistra della democratica.
Un punto a sfavore a fronte del problema indecisi è tuttavia, nelle sei sezioni affrontate, la routine nelle tematiche di politica interna e il poco spazio riservatogli, quindi inevitabilmente di maggiore interesse. Le policies legate ai problemi interni infatti sono quelle che potrebbero fare la differenza il prossimo 8 novembre, convincendo e muovendo l’elettorato, chiudendo definitivamente il duello.
Ma tornando al dibattito, la tensione diventa più evidente sul piano internazionale, in tema Putin, con il richiamo di Hillary a una simpatia poco attenta del candidato repubblicano visti i fenomeni di hackeraggio russo, per non parlare della questione ISIS, che Trump afferma essere nata dal vuoto di potere creato da Obama e Clinton, un’accusa più pubblicitaria che reale, che sicuramente rivela un buon fiuto per il marketing, ma una scarsa cognizione della geopolitica. Esattamente come la questione della guerra in Iraq, che non può che destare l’interesse anche del moderatore Holt, il quale mette in luce il fatto che quella posizione da pacifista, contraria alla guerra in Iraq in sede di confronto rivendicata da Trump entra in netto contrasto con le dichiarazioni presenti in interviste e varie rilasciate dal candidato, il fact checking sbugiarda il candidato, ma Donald e il suo carisma stemperano il tutto tergiversando sul caratteraccio di Hillary, al quale la democratica risponde con un sorriso, accentato poi dal vuoto di argomentazioni in mezzo a quei giri in tondo riportato ai problemi reali dalla Clinton.
“L’America ha bisogno di una persona che non faccia interferire nessuno con l’America e la sua sicurezza”, della Clinton, contro il “non possiamo essere i poliziotti del mondo”, che mal si coniuga con quella più in là citata incapacità di negoziare che Trump dice Hillary non avere, nonostante la sua precedente affermazione strida con gli accordi a cui gli States sono legati e che, di fatto, Trump da solo non potrà stracciare: nessun uomo è un’isola, men che meno un presidente che gode dell’antipatia della sua stessa ala, di quegli stessi repubblicani che, con la puzza sotto il naso, votano, convinti che tuttavia, nulla di quel che lui potrebbe portar avanti, si configura come il loro programma politico. Semplice narcisismo politico, coniugato all’imperativo della vittoria.
Finisce il dibattito e Hillary tra la folla, insieme al suo immancabile Bill al fianco, stringe mani e regala sorrisi a tutti. Donald va via, non lascia spazio ad ulteriori chiacchiere o sguardi sul palco che li ha appena ospitati.
Non si sono risparmiati colpi bassi, con uno stacco emotivo persino dall’ex first Lady, alle cui prese emozionali non siamo abituati, con un riferimento a delle offese del miliardario in un exploit dedicato alle donne.
Un duello all’ultimo sangue, fatto delle accuse repubblicane alla Clinton di far parte dell’establishment uscente e di tutte le pecche ad esso legate, e il vuoto programmatico di Trump, che la democratica non ha potuto far a meno di sottolineare.
All’ultimo giro di giostra, l’autorevolezza della Clinton e lo spirito polemico dell’outsider Trump regalano forse uno dei più bei confronti presidenziali dal Dopoguerra ad oggi. Tuttavia la vittoria verbale è democratica.
L’argomentazione vince, inevitabilmente. La concretezza vince. E per quanto tanti vedano le argomentazioni di affondo in politica estera di Donald come l’arma che ha riportato il duello ad armi pari, l’orecchio sottile di chi ha guardato il confronto non in maniera visionaria, ma con un cinismo staccato dal qualunquismo, non ha potuto fare a meno di notare l’efficacia del discorso democratico.
La sconfitta si riconferma nella corsa ai giornalisti di Trump, mai visti così presto fin’ora, quasi ci sia la necessità di spiegare quanto già detto in un’ora e mezza di dibattito. Mentre la maestria, la conoscenza quasi da “secchiona” della Clinton sovrasta l’auditorium, con il riconoscimento finale anche del suo avversario.
Un confronto che si stacca da quello a cui si è abituati, a partire dall’abbigliamento dal blu democratico però vestito da Trump come il rosso repubblicano indossato dalla Clinton. La sfida si infittisce ed il duello non si chiude certo con un semplice confronto dialettico.
Siamo ormai alle porte di una sfida più grande, che, al di là di ogni cosa, per quello che tutt’ora politicamente gli Stati Uniti sono, ci coinvolge tutti.
Di Ilaria Piromalli