Arriviamo così al terzo e ultimo atto del più appassionante confronto presidenziale che gli ultimi anni sia stato messo in scena, che vedrà al centro uno dei candidati più controversi delle ultime elezioni, e una ex first lady determinata più che mai.
Hillary è in bianco, esattamente come la sera della sua nomination, a Filadelfia, mentre Donald ripropone il completo con cravatta rossa sfoggiato nel secondo dibattito, in richiamo ai colori repubblicani.
Le differenze che intercorrono tra i due risultano più che mai evidenti. Come è diversa l’idea di America e di futuro che propongono.
La cortesia non è la protagonista del dibattito, per quanto questo inizi in maniera tutto sommato rituale: è solo dopo la prima mezz’ora che gli animi iniziano a scaldarsi. A che una tranquilla conversazione, che mette in luce le diversità, su temi inerenti la politica interna, economici e sociali in generale, si infittisce a partire dal nodo immigrazione.
Al centro due visioni, una chiusa e una aperta. Un mondo di barriere e un mondo in cui distruggerle. Da lì in poi, con il proseguo verso le tematiche al centro della politica estera, il confronto si fa aspro, duro, pieno di cattiverie gratuite, una parentesi che rivanga la vergognosa pagina politica del precedente duello televisivo, tutto gossip e niente arrosto.
Sorprende poi una Hillary ancora emotiva, più del suo avversario, che ha fatto del carisma emozionale la sua arma vincente, specie nello scatenare il senso di rivolta delle classi basse. Una Clinton che in tema immigrazione ricorre persino all’immagine del bambino di Aleppo, cha ha colpito la sensibilità del mondo intero.
La politica estera è terra di scontro, lo è inevitabilmente per più ragioni. La questione dello spionaggio russo ad esempio, che diviene arma preferenziale per la Clinton. Da lì in poi la vittoria democratica diventa palese. L’accusa dell’approvazione di Trump a Putin, di un candidato presidente degli Stati Uniti alla Russia è forse la mossa più scaltra di questa lunga campagna elettorale.
Il confronto prosegue e Hillary insiste e persiste. Fa passare Donald per il burattino incapace di cui la Russia ha bisogno, di cui può servirsi. Arriva persino a parlare di interferenza del Cremlino finalizzata all’influenza delle elezioni presidenziali, citando “12 agenzie di intelligence”, e tuttavia non richiamandone i nomi.
Ma fa uno step in più, rigettando in diretta delle tesi sul complotto elettorale portate avanti da Trump in questi giorni di campagna e su quelle elezioni falsate che il miliardario dice, con freddezza, che non sa ancora se potrà accettare in caso di sconfitta. Un chiaro appello al popolo della rivolta per i più.
Si passa al versante economico e qui la Clinton insiste sul modello sociale e di welfare come
vera, sola base di sviluppo. Si parla di “bilancio economia puntando sul ceto medio”, che alla luce della differenziazione salariale ipotizzata da economisti del calibro di Summers, diviene un elemento di pregio per il programma, concreto e realmente finalizzato alla crescita.
D’altronde, già Bill Clinton nei mandati che vanno dal 1993 al 2001 realizzò una politica economica, che dopo le fallimentari politiche di Reagan, con la sua reagonomics (che portava avanti tra l’altro due dei modelli che fanno capo al programma del repubblicano Donald, quali taglio contemporaneo di spesa pubblica per fini sociali), e Bush, che contribuì a far ripartire lo sviluppo e l’espansione economica americana, dopo la recessione del 90-91.
Trump smonta senza motivare, accredita la propria idea di abbassamento delle tasse, senza dire come avrebbe intenzione di realizzare il tutto, cita solo questo motivo ormai monotono e ridondante di ulteriore liberalizzazione del commercio (che tuttavia al cambiamento che l’economia sta subendo risulta retrogrado e andrà a fomentare la situazione di stasi che gli USA, come il resto dell’Occidente, stanno vivendo).
Vi è poi uno stacco nel proseguo del confronto. Forse il primo significativo, deciso e autentico di Trump alla democratica. E questo perché Donald tira fuori l’appartenenza di Hillary al vecchio establishment, quello sempre stato al potere, che si propone sempre con meravigliose idee, ma non fa nulla.
È un momento favorevole per Trump, ma dall’affondo la Clinton risale, o tenta almeno di farlo, citando quanto di concreto ha fatto mentre l’uomo candidato di fronte a lei “festeggiava con miss universo”.
Da lì, passando per quelle questioni che toccano lo scottante tema dell’ISIS, ad un nuovo giro in tondo al gossip, tra molestie e adulteri che ormai tutti conosciamo e che hanno accompagnato fedeli primo, secondo e terzo confronto, nonché buona parte della campagna elettorale, tutto è stato un’escalation di tensione.
Ma il picco del dibattito viene raggiunto tra le accuse di Donald alla Fondazione Clinton e il già sentito motivo delle tasse non pagate dallo sfacciato miliardario.
Donald perde le staffe e il modulatore del confronto richiama all’ordine. In questa parentesi si inserisce una Hillary che, furba, porta l’attenzione sulle continue frasi denigratorie di Trump alla democrazia americana. E un altro punto per la first lady!
Si arriva al nodo Iraq, si arriva alla questione della missione Mosul. Vi è un no fermo alle truppe USA per la Clinton la proposta di una “No fly zone” per la Siria, come deterrente all’immigrazione e come modo per poter iniziare a trattare.
Trump dalla sua con grande spontaneità afferma non esserci l’effetto sorpresa nell’attacco a Mosul, non tenendo conto dei trattati internazionali, una frase da popolo ma non da politica. Di fatto non esiste la possibilità di iniziative belligeranti, e le missioni per così dire segrete, ovviamente l’opinione pubblica non le conosce. E un presidente non è autorizzato a parlarne.
Ma a questo punto del dibattito, vi è un altro elemento interessante. E questo perché la Clinton, dalla sua sferra un destro allo stesso Obama. La domanda posta alla candidata riguarda la già citata “no fly zone”, e in tema Hillary con molta franchezza dice che al posto dell’uscente presidente si sarebbe comportato in tutt’altro modo.
Ma non è questo l’ultimo chiaro ponte e quasi indiretto appello al voto dei repubblicani stessi. La Clinton è chiaramente in cerca di sostegno non solo dal suo fronte. E in questa parentesi, si ricollega l’affondo sferrato a un Trump che attacca Raegan, simbolo per eccellenza del mondo repubblicano.
Qualcuno, a tal proposito, ha parlato di deriva conservatrice. Per quanto paia un ben più semplice e machiavellico “fine che giustifica i mezzi”.
Un bambino viziato che si vanta delle sue capacità, che propone, facendo gran voce in maniera discutibile oltre che narcisistica delle sue idee, criticando tutti, non risparmiando nessuno. Questa l’immagine che Hillary dà del suo avversario senza mezzi termini.
Un qualunquista, un uomo che sta sempre nel mezzo, che emula politiche populiste, poco previdenti e di breve periodo.
Ed essendo il modello sociale e di assistenza, il modello di crescita economica, un nodo essenziale del suo programma, frutto dell’esperienza, non può che sottolineare con indiscutibile savoir faire la cosa.
Donald da parte sua, sbotta in maniera un po’ arrogante, con un “faremo crescere l’economia a tasso record” azzardato.
E Hillary, dal canto suo, afferma con decisione che bisogna puntare sulla classe media per ripartire, aumentare le tasse ai più ricchi. Aumentare benefici per persone con basso reddito. Afferma che le politiche di Trump condurranno ad aumento vertiginoso del debito nazionale, con conseguenze su classe più povera, sul fronte assistenziale e della pubblica sicurezza in particolare.
Così, finito il confronto, il modulatore va agli appelli conclusivi. Un minuto per ognuno e si conclude la giornata, con un invito al voto, contenuto ma conciso e diretto.
Non si stringono la mano gli avversari, nemmeno alla fine. La Clinton lascia il podio immediatamente e, dopo aver stretto la mano al modulatore, si stringe attorno al suo entourage.
Trump va via dopo, mentre si avvicina a lui la famiglia.
Freddezza dilagante nell’ ultima occasione di vedersi prima del voto dell’8 novembre.
Sapete, seguire i confronti ha regalato probabilmente l’emozione di vivere un importante, fondamentale passaggio storico. È e sarà ricordato quale lo scontro più strano, per certi versi bizzarro, tragicomico a tratti.
Ma rimane il fatto che due idee di mondo totalmente contrapposte, si sono trovate a confronto per la prima volta e, al di là di vincitori e perdenti, hanno dato luogo a uno spettacolo politico mai visto prima.
La determinazione di una donna che non ha mai perso le staffe e che potrebbe diventare la prima presidente donna degli Stati Uniti d’America, la stessa donna che è stata al centro degli scandali e dei tradimenti del marito Bill, e che dimostra di saper mantenere sangue freddo, con audacia, coraggio, senza abbassare mai la testa.
Un miliardario dalle idee controverse, radicali, distante dal linguaggio e dai modi di quel mondo, repubblicano, che va a rappresentare nelle elezioni.
Non sappiamo ancora cosa avverrà il prossimo 8 novembre. Possiamo immaginarlo, sì.
E tuttavia rimane la sola certezza che vivremo un evento storico, che, in una misura che forse non riusciamo ancora a comprendere, potrebbe cambiare il futuro del globo intero.
Di Ilaria Piromalli