Quella di Claudio è una storia di una detenzione e di sofferenza. Sta scontando 9 mesi di domiciliari perché “l’alcool lo imbruttisce”.
Claudio Benvegnù, triestino di 64 anni, voce roca, parlantina veloce, affetto da onicofagia e dolore. È dalla sua voce che percepisco la sua intelligenza e la sua sensibilità.
Decido di intervistarlo perché rimango colpita da una frase che sento nel suo discorrere molto libero all’interno di un gruppo di cui, entrambi, facevamo parte solo da poco.
«Dopo sette anni mi hanno messo ai domiciliari».
Gli chiedo se gli va di parlamene e mi accoglie nel suo appartamento popolare al quinto piano di una palazzina di Trieste. Volevo sapere come potesse essere possibile che una condanna arrivasse tanto in ritardo rispetto alla data del reato.
La condanna alla detenzione domiciliare è di nove mesi e il reato è di resistenza a pubblico ufficiale in stato di ebrezza.
«Nell’82, ero uscito ubriaco da un locale. Mi hanno chiesto i documenti, ho reagito un po’ malamente. Sono stato bastonato e mi hanno chiuso al carcere Coroneo una settimana. Lì, c’è stata la prima condanna ai domiciliari di 4 mesi. Dopodiché, ne segue una nel 2008, per guida in stato di ubriachezza, un anno e otto mesi, per una condizionale di due anni e due mesi in totale. Sai come funziona?».
Ovviamente, no…
Significa che per due anni puoi ancora fare qualche cazzata. L’ultima volta, sette anni fa, a causa di un mio amico insistente, ho bevuto. Hanno chiamato l’ambulanza e la polizia. Quando bevo, io divento cattivo, è la mia indole. Non sono manesco, ma mi sale la rabbia. Due anni fa, l’amministratore di sostegno mi avvisa di questa condanna di nove mesi. Io non avevo mai ricevuto niente, nemmeno una lettera, non sapevo un ca**o di niente, sono stato giudicato in contumacia. Se non era per lui, che ha un amico poliziotto, non mi rifacevano neanche il processo, durante il quale hanno però confermato la condanna.
Non c’è altro, sono stato condannato solo per bibita».
Mi chiedo come fosse possibile che tu non lo sapessi?
«L’avvocato d’ufficio dice di aver mandato tutto via posta, ma dove? A casa, dove vivevo con la mia ex moglie non è arrivato mai nulla. Nemmeno a “Stella Marina”, nella comunità dove vivevo e loro sapevano stavo lì, perché, una volta, arrivò la polizia perché la figlia della mia ex compagna mi aveva accusato di furto. Non venni condannato perché non avevo commesso il fatto e a mia volta feci una denuncia per diffamazione. Comunque, il fatto è che sapevano dove stavo per perquisirmi e non per mandarmi la posta».
Nel frattempo, arriva una telefonata in cui Claudio si lamenta perché, per andare in ospedale a fare un visita dentistica, non gli era bastata la solita telefonata in questura con cui avvertiva la segreteria che sarebbe uscito di casa, ma doveva fare istanza dal giudice. Inveisce e ride, perché è assurda la burocrazia.
«Salutami tua moglie».
Conclude la telefonata.
Chi era?
«L’amministratore di sostegno. Ti spiego: quando ero in alcologia mi hanno detto che, o ne prendevo uno o avrei dormito in strada, perché ci sono i ricatti anche lì, sai? Quindi, o dormivo in alcologia, Trieste è uno dei rari posti in Italia dove si può, o sulle panchine. Dopo un giorno fuori, decido di prenderlo. Si parla ormai di sei o sette anni fa, non tengo il conto, non sono uno di quelli che prende le medagliette degli alcolisti anonimi. Ora, lui e io siamo come fratelli. Lui sostiene che non ho bisogno di lui. L’amministratore di sostegno serve per chi butta i soldi in bibita o nel gioco, ma io non butto più soldi così, io investo in casa mia».
L’appartamento dove vive in affitto è molto curato e pulito. Alle pareti ci sono appesi quadretti con foto.
«Sai perché amo questa casa? Perché non ne ho mai avuta una. Sono stato buttato fuori di casa da mia moglie e dalla mia compagna. Questa è la mia casa. Morirò qua dentro, l’ho fatta col cuore».
Di fatto, sembra una casa abitata da una donna, piena di attenzioni, ninnoli, fiori. Senza polvere.
«I fiori abbelliscono la casa. Ho visto case dove ci sono solo un tavolo e un televisore. Pensa fare i domiciliari in un posto così».
Mentre beviamo il caffè, sentiamo delle urla provenire della finestra, sono le bestemmie di qualcuno che litiga per strada. Claudio mi dice che succede spesso. Io faccio un giro della casa e noto un tavolo da stiro in salotto, scritte sopra le porte come “cadere non è un fallimento, fallimento è rimanere dove si è caduti”. Su ogni porta è indicata la stanza: bagno, cucina, camera. Sul divano, panni da stirare, vicino, ripiani con film in videocassetta, libri e una televisione molto grande in camera da letto. Sul letto, il piatto su cui ha pranzato. Prodotti per la pulizia sia in bagno sia in cucina. Non manca nulla, dall’anticalcare allo sgrassatore.
È davvero una bella casa, la sua prima casa.
Capisco che la sua storia è importante non solo per la detenzione domiciliare in ritardo di sette anni per mancanza di avviso, ma che lui è un uomo interessante e l’attenzione che ha nelle piccole cose è compensativa di una solitudine e di una rabbia che risalgono a molto tempo prima.
«Ci sono cose che si possono tenere dentro per tutta la vita, ma l’esperienza che ho vissuto e vivo ancora adesso, la vivo tête-à-tête con le persone. Bisogna imparare a lasciare andare anche se si continua a rimpiangere. Sto facendo ricerche sulla mia famiglia adesso».
Parlami della tua vita.
«La vita ti porta a delle situazioni per cui la malinconia resta sempre dentro. Per esempio, la mia infanzia in stazione, quando avevo cinque anni, la porterò con me per sempre. Cose così non si dimenticano o, quando ti pare di averlo fatto, riappaiono negli incubi».
Sei nato a Trieste. Poi?
«Ero solo con mia madre, mio padre non ho mai saputo chi fosse. Mia madre era esule croata e siamo andati in Norvegia i primi anni, dove si diceva si stesse meglio, poi siamo tornati in Italia. Mia madre era malata, un chiodo le bucò una gamba da piccola ed ha sempre avuto problemi a camminare. Era zoppa. Siamo andati così a dormire in stazione. Una volta c’era una mensa nella via a fianco e sotto c’erano le docce. C’era un dormitorio dove dormivi con duecento lire, ma quando non avevamo soldi, facevamo finta di aver perso il treno delle 22:15 che portava a Roma e potevamo dormire dentro, al caldo. I poliziotti ci conoscevano tutti, ormai. Poi, lei chiedeva qualche lira per farmi fare colazione, a lei non importava di mangiare. Verso le nove andavamo all’istituto per i poveri a prendere vestiti e i buoni per mangiare. Mia madre aveva un sussidiario dove prendeva nota di tutto, poi passavamo la giornata in stazione e lei parlava con delle amiche croate».
E tu cosa facevi? Stavi solo con tua madre?.
«Sì, non avevo altri».
E quando sei andato a scuola?
«Dopo la Norvegia siamo stati al campo profughi nella Risiera di San Saba, era il ’62. E poi, ci hanno mandati a Capua. Da lì, siamo stati in stazione. A quel punto, si sono messe in mezzo le assistenti sociali che hanno tolto la patria potestà alla mamma e hanno iniziato a sbattermi per i collegi tra Anzio, Roma, Sappada, Sagrado, Balazzetto di Udine, Gorizia. Mi spostavano ogni anno. Odio le suore, cono cattive. Sono donne arrabbiate con la vita, Mi ricordo di una volta che mi hanno buttato per terra e sputato in faccia davanti a tutti gli altri bambini e mi hanno detto “Non ti ricordi che tua mamma fa la carità?”. Ricordo che mi bastonavano con le listarelle degli scuri, quaranta vergate per braccio e mi facevano inginocchiare sul sale. Avrò avuto sei o sette anni.
Mia madre viveva a Roma e faceva le pulizie per Ornella Vanoni. Ma veniva a trovarmi ogni quindici giorni fino a Sappada per stare venti minuti con me, tipo galera. Mi portava da mangiare: dovevo mangiare subito e tutto perché altrimenti quello che avanzava veniva sequestrato dalle suore che lo dividevano con gli altri.
A tredici anni, sono scappato dalla Colonia di Pierabec, in Carnia, e sono andato da mia madre che aveva appena preso casa qui, solo che non potevo stare con lei, allora mi sono nascosto in giro per Trieste».
Claudio parla a ruota libera della gente che sta male, che lui vorrebbe aiutare, ma non può per la detenzione domiciliare. Racconta di un afghano caduto e delle persone che gli passavano accanto senza aiutarlo.
«La gente passa oltre». – dice mentre sembrano cadergli le braccia insieme gli occhi.
Racconta commosso della poesia di un’amica che viveva in comunità con lui, di come sua madre quando veniva a trovarla le dava solo soldi, né baci né abbracci. E di come la incontrò poco dopo e gli disse che stava andando a fare il mestiere più vecchio del mondo. Dopo vent’anni la rincontrò cambiata, imbruttita. La vide in stazione, vestita “come una zingara”, veniva mandata a chiedere la carità dal suo uomo, si drogava. È morta a quarantatré anni.
«Conosco molte persone morte di alcol e di droga. Un mio amico bellissimo e solo si è buttato dalla finestra a 17 anni: la polizia decretò che era scivolato, senza indagare. Un altro mio amico aveva cominciato a drogarsi. Gli avevo detto di mollare quella merda, ma lui niente ed è stato trovato morto con la siringa ancora nel braccio».
Tutti vittime del dolore che provavano…
«Sì, l’agonia esiste, la malinconia ce l’abbiamo dall’inizio della vita. La famiglia bellissima non esiste. La vita è vissuta dai disperati, da chi comincia con niente, dalla merda, dal fondo».
C’è anche chi vive in una famiglia ricca, ma anaffettiva, abusante.
«Il materiale non serve a un ca**o. Con i soldi non prendi l’affetto».
I soldi non fanno sentire protetto un figlio…
«Con mia madre mi sentivo protetto, nonostante i suoi handicap, lei era il mio angelo custode. Nonostante il suo essere zoppicante e povera, c’era sempre, in ogni collegio dove venivo spedito, lei, in qualche modo, c’era».
Quando hai iniziato a bere?
«Dopo il collegio a Gorizia sono tornato a Trieste. Tornavo da mia madre di nascosto»
Quanti anni avevi?
«Tredici. A quattordici anni ho iniziato a bere perché il passaggio dal collegio alla strada…chi stava in strada aveva una casa, chi veniva dal collegio veniva dal convitto, ero l’ultimo gradino in basso della scalinata. Ho iniziato a bere per essere qualcuno, e sono diventato “Caio Matto”. A quattordici anni ho iniziato a fare l’imbianchino in nero. Ho bevuto tantissimo fino ai ventisei anni.»
La tua giornata com’era?
«In strada. Quando lavoravo, bevevo appena finivo. Poi tornavo a casa da mia madre».
Non ti diceva niente?
«No. Le davo colpe, la amavo perché aveva fatto tutto per me, ma la odiavo perché non avevo niente. Col tempo si capisce quanto ti manca e ti rendi contro di quello che ha fatto. Quando morì era mezza paralizza, era in casa di riposo, non parlava, non sapeva né leggere né scrivere. Un tempo bestemmiava sempre, poi alla fine diceva solo Madonna. Pensavano invocasse la Maria, ma io sapevo che, invece…»
Quando hai smesso di bere?
«La prima volta quando Don Mario Vatta mi chiamò in comunità e mi chiese se mi piaceva bere. A quel punto, quando gli risposi di sì, mi disse di continuare a farlo. Allora, pensai che se avessi perso lui, avrei perso tutto. Ho smesso da solo. Giravo con gente che beveva, ma non bevevo. La mia fortuna è stata che lavoravo, lavoravo più ore dell’orologio, avevo anche una ditta. Lavorare significa andare avanti. Non ci si può arrendere».
E l’alcool?
«Ti rende falso, ti imbruttisce».
Per quanto tempo hai smesso?
«Venticinque anni, fino al 2006.»
È in questo periodo che ti sei sposato?
«Sposato, separato, divorziato. Lei si è trasferita a casa mia appena incontrata. Ma l’amore vero l’ho conosciuto dopo, con un’altra, e quando non stavo con lei mi mancava l’aria, avevo un groppo dentro, sentivo quello che con mia moglie non ho mai provato».
A Claudio si illuminano gli occhi. Si riappropria della bellezza giovanile che regala l’innamoramento.
«Con mia moglie le cose sono andate male quando ha deciso di licenziarsi, anche se mi andava bene perché mi fidavo della sua famiglia per quanto riguardava nostro figlio Luca. Ma me l’hanno rovinato perché la nonna giocava al lotto. Pensavo fosse la famiglia perfetta per mio figlio, che invece è diventato un mammone e aveva già dei problemi che tutti negavano. Dopo l’ennesimo litigio con mia moglie, le ho detto che poteva prendersi tutto, ma non più il mio cuore. Ho dato un pugno al muro in cartongesso e la mano mi è andata fuori per fuori. Entro tre mesi il giudice ha detto che dovevo andarmene via di casa. Dove sono andato secondo te?»
Da Don Vatta?
«No, in stazione. La stazione rappresentava mia madre quando ero piccolo. Sono finito di nuovo in stazione perché cercavo gli anni della mia infanzie e ne ho vissuti altri due anni lì. Sentivo mancanza e il bisogno di protezione».
E tuo figlio?
«Stava sempre con sua madre e sua nonna, adorato perché era il maschio che mancava nella loro famiglia. Questo finché i fratelli di mia ex moglie non ebbero due figli maschi e Luca, finì al terzo posto. Allora, si attaccò a me di nuovo, anche ieri era qua e mi ha fatto la spesa. Il mondo è tondo, ma anche un po’ piatto, si perdono le pedine e poi si ritrovano».
Bisogna collegare i numeri come nel gioco o della settimana enigmistica.
«Fino a un anno e mezzo fa, non parlavamo nemmeno Luca e io, non sapeva neanche che ho avuto un tumore alla gola».
Ma non dovresti fumare!
«Lo so, ma me ne sbatto. Prova a togliere il fumo a uno che è ai domiciliari…mi hanno fatto i controlli ed è tutto a posto. E se deve tornare, pazienza, cosa vuoi farci? Un infarto sarebbe uguale. Se il destino deve prenderti, ti prende.
Se pensi che Don Vatta ha avuto non so quanti infarti… non so come faccia ad andare avanti. Lui ha cinque bypass, ottantacinque anni, ma una forza bestiale con cui combatte per aiutare gli altri. Uno dato per spacciato, che combatte ancora. Questo è vivere: combattere»
Uno potrebbe vivere anche per la pace, però.
«Lui lo fa per il bene di tutti quanti. Il pianeta delle dipendenze è allucinante. Nessuno riesce a capire i problemi che portano una persona a bere o drogarsi.»
Mi congedo da Claudio, dopo aver scoperto che era un maratoneta, un ottimo calciatore e un milanista sfegatato. Noto appesa in cucina una lavagnetta con scritto il numero di cellulare del figlio, quello della segreteria della questura e una data: il 18 settembre 2023, quella in cui scadrà la detenzione, calcolando 45 giorni di buona condotta.
Penso: 9 mesi per aver offeso un ufficiale mentre era ubriaco, in cui deve comunicare ogni suo spostamento, in cui si può muovere per lavorare dal lunedì al giovedì dalle 8 alle 14.
«Devo essere a casa dalle 14 alle 8 della mattina. Venerdì e sabato ho a disposizione due ore per per andare in giro, devo stare le altre 22 ore qua, per questo ho una bella casa. Può venirmi a trovare chiunque, purché non sia pregiudicato. Adesso che devo andare dalla riunione degli alcolisti, devo comunicarlo in questura, devo comunicare quando torno a casa. Devo avvisare sempre la segreteria dell’anticrimine. Se casualmente non mi fossi accorto che ero ai domiciliari, sarei finito direttamente in carcere. Questa è l’Italia. È sbagliata».
Se pensi, potevi andartene via, essere involontariamente un evaso.
«Tutti sottovalutano la UEPE, l’assistente sociale del tribunale che fa da tramite fra accusato e giudice. Ogni relazione della UEPE va al giudice. Se volessi avere un colloquio col giudice, non potrei proprio perché c’è la UEPE, mentre se fossi in carcere paradossalmente, lo otterrei».
Claudio mi mostra un permesso chiesto alla UEPE per una visita medica e poi il permesso che gli ha dato il giudice. Lo stesso che gli serve anche solo per mangiare una pizza fuori.
Perché sei finito ancora in comunità?
«Perché dopo essermi lasciato con l’ultima compagna, dove sarei andato se non ancora per strada? Così ho scelto di tornare da Don Mario Vatta, in alcologia».
Don Mario Vatta è il fondatore della comunità di San Martino al Campo, nata negli anni ’70 a Trieste per mano di un giovane e intraprendente sacerdote desideroso di aiutare chi è momentaneamente senza casa, chi è senza lavoro facilitandone l’inserimento, chi è affetto da dipendenze, da disagi psichici, sostenendo tutti, anche i detenuti. Un comunità per chi ha bisogno di sentirsi accolto e amato.
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Claudio e io ci salutiamo dopo due generosi caffè e dopo che mi ha mostrato la sua foto insieme a un’amica morta da poco, una giovane che era, testuale, un pezzo di figa, con cui era stato in Val Rosandra per il compleanno e con cui aveva avuto una breve storia. Era malata e gli aveva scritto che sperava di farcela, altrimenti, se Dio l’avesse presa…
Sulla porta, gli chiedo se cambierebbe della sua vita:
«No. Forse, vorrei tornare indietro per fare una schedina vincente e aiutare chi ha bisogno. Non si può, allora, lo faccio, comunque, ogni volta che posso, anche alla comunità, dove insegno ai ragazzini a imbiancare».
Adesso cosa fai?
«Prendo la pensione e lavoro per l’ASUGI. Con 600 euro riesco a fare tutto, aiuto anche mio figlio. Adesso gli ho detto che vorrei andassimo a Roma tre giorni: voglio portarlo in stazione termini. Ha detto che ci penserà, è già moltissimo».