L’Accademia della Follia con Claudio Misculin è nata nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste. Erano i giorni in cui, arrivato Franco Basaglia, le porte si aprivano, gli internati circolavano per il parco e cominciavano a guadagnare la città.
Misculin occupò, con alcuni suoi compagni, uno dei reparti appena svuotato. Cominciarono a vivere in quel reparto. Stampavano “la mela rossa”, un foglio ciclostilato ribelle e anarchico.
Da allora, di quel luogo, ha condiviso la storia e il tumultuoso cambiamento.
E così come è difficile collocare e definire il lavoro di Basaglia e la svolta storica che ha prodotto, risulta altrettanto complicato ridurre alle parole del teatro (o della psichiatria) il lavoro di Claudio Misculin.
L’Accademia della Follia, così come Claudio l’ha fatta vivere, non è un centro diurno, non è un laboratorio dove attori professionisti intrattengono i pazienti psichiatrici, non è il tentativo una tantum di mettere in scena qualcosa con i matti: una poesia, una canzone, un pezzo scritto proprio da loro. Non è un luogo di terapia di gruppo. Non è una filodrammatica dove attori dilettanti impegnano il loro tempo libero. Quelli dell’Accademia sono, come essi stessi dicono, “matti di mestiere e attori per vocazione”. Non dispongono di tempo libero perché hanno vissuto il tempo servo delle istituzioni e l’assenza del tempo nelle giornate appiattite dalla malattia. Sono stanchi di intrattenersi o di essere intrattenuti, hanno sperimentato secoli di terapie e centinaia di giornate di Centri di salute mentale. Hanno rischiato l’annullamento nell’identità piatta del malato di mente.
L’Accademia della Follia è un luogo dove le persone, finalmente incerte e dubbiose sulle loro identità, si scommettono nella ruvidezza, nei conflitti, nel molteplice gioco dei ruoli. Si scommettono rigorosamente, e dolorosamente talvolta, come persone.
Sfugge alle collocazioni e alle definizioni Franco Basaglia quando semplicemente afferma che il suo interesse è “per il malato e non per la malattia”, quando si accorge che inaudite violenze sono accadute in nome di conoscenze confuse e contraddittorie che hanno costituito le fondamenta quanto mai fragili della scienza psichiatrica, quando angosciosamente si interroga: che cos’è la psichiatria?
L’apertura delle porte dei reparti, l’abbattimento dei muri e delle reti, la chiusura degli ospedali psichiatrici, il riconoscimento delle storie e della singolarità delle persone saranno le risposte dovute a quella domanda.
Le attrici e gli attori dell’Accademia della Follia, senza compromessi, testimoniando col proprio corpo e con le parole della loro storia, inverano tutti i passaggi che da quelle domande hanno preso forma. L’Accademia si trova così di volta in volta a denunciare le violenze del manicomio e della contenzione, travolgente e disperato il “Mattjakovskij”; la stupida e mortifera rigidità della scienza e dei poteri medici, bellissimi i lavori su Semmelweis e Maccacaro; l’assurdità della sopravvivenza dei manicomi criminali, esilarante e tragico “Ardito Giulio Romano Italico Muscolini”; e poi le storie delle persone che ritornano a vivere come nell’impagabile tenerezza de “La Luce di dentro” che racconta con la regia di Giuliano Scabia la meravigliosa storia di Marco Cavallo; e ancora storie di persone, “La storia di Augusta” e della sua interminabile vita in manicomio e “Parole in tuffo” dove Giovanni Spiga, internato, racconta del manicomio che ti taglia la lingua e che ti ruba le parole; o come le parole precise, taglienti e incisive di “Stravaganza”, scritto da Dacia Maraini, dove i personaggi in scena sono matti e tuttavia narrano e testimoniano le possibilità di cambiamento, di vita, di futuro malgrado la malattia.
Raccontano della storia delle persone e raccontandola rompono l’involucro della malattia e la follia ritorna senza difficoltà nella vita: nostra e degli attori.
Trovare un modo perché la follia ritorni a far parte della vita e non sia ridotta a malattia dalla forza della ragione e dalla violenza delle istituzioni è la ricerca che gli attori dell’Accademia fanno con Claudio Misculin e che Claudio ha sempre portato avanti con coraggio e vigore e un pizzico di follia.
I pregiudizi occupano il campo della comunicazione intorno alle persone che vivono l’esperienza della malattia e a quanti sono per diverse ragioni coinvolti. I luoghi deputati alla comunicazione, i giornali, le radio, le televisioni, non fanno altro che riprodurre luoghi comuni, sciatterie, dimenticanze. A cercarla non si trova neanche una mezza verità.
Solo la parola di chi vive e ha vissuto queste esperienze, la parola riconquistata dagli internati, dai senza voce, sembra finalmente sconcertare. Saltano le certezze intorno alla malattia e alla nostra normalità. Riusciamo a vedere l’altro, a dare significato alle parole, alle scelte, ai comportamenti fino a ieri fuori da ogni possibile umana comprensione. Claudio scommettendo tutto se stesso ha portato il “suo teatro” a diventare il solo luogo dove oggi si può dire la verità.