Il Cio ci ricorda il prezzo del progresso, quanto siamo disposti a pagare?

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Il Cio vieta gesti politici o religiosi sui podi e durante le gare, nonché nel corso della cerimonia di apertura. Saranno invece permesse forme di protesta a colloquio con i media ed in conferenza stampa

Il mondo, o almeno la sua parte sana, è unito più che mai nella battaglia per ottenere pace, libertà ed uguaglianza. I movimenti si fanno globali, internet permette di organizzare proteste contemporanee in diverse parti del mondo e i social danno voce agli ultimi e documentano le ingiustizie. Ma quanto siamo disposti a pagare per raggiungere queste condizioni? Ci sono veramente luoghi non adatti a professare messaggi di pace e inclusione? Secondo il Comitato Olimpico sì.

No a gesti di protesta in gara

A 53 anni di distanza dal gesto di Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpionico di Città del Messico, in quel ’68 che rimarrà fortemente impresso nella memoria collettiva, quasi in forma proverbiale, il Comitato Olimpico torna a parlare di sport e proteste. E non lo fa chiedendosi perché dopo mezzo secolo le battaglie siano ancora le stesse, ma lo fa per vietare ogni forma di protesta nel corso delle gare e sui podi.

Esatto, gli atleti non potranno manifestare dissenso o lanciare messaggi politici o religiosi nel corso delle gare. Vietato il buon senso anche durante la cerimonia di presentazione delle Olimpiadi, probabilmente una delle casse di risonanza più grandi dell’intera manifestazione. In compenso però l’organizzazione fornirà vestiario che include le parole “pace”, “solidarietà” ed “uguaglianza”.




Spazio quindi all’ipocrisia, che si palesa nel divieto categorico di manifestare durante i momenti più importanti di tutta la competizione, pur potendo indossare graziosissime tute con scritte frasi inclusive. I messaggi politici o religiosi saranno limitati esclusivamente alle conferenze stampa e, più in generale, alle situazioni dove saranno presenti i media.

Ciò che più spaventa dell’intera situazione è che la proposta parte proprio dalla Commissione Atleti. Proprio coloro che dovrebbero combattere per rivendicare i propri diritti, che dovrebbero battersi perché la propria voce venga ascoltata. Non che essere un atleta debba per forza significare essere un attivista, certo. Tacciare in questo modo sé stessi e gli altri in un contesto tanto importante sembra però essere un insulto verso tutto ciò che si è fatto fin’ora.

Sembra un insulto verso i succitati Smith e Carlos e verso Colin Kaepernick. Verso tutti i giocatori NBA che hanno minacciato di far saltare l’intera stagione se non avessero avuto modo di far sentire la propria voce. Sembra essere un insulto verso Lewis Hamilton, che da sette volte campione del mondo ha combattuto per portare il movimento Black Lives Matter in Formula 1, e che ha dovuto affrontare tentativi di restrizioni molto simili a quelle messe in atto dal Cio.

Il caso Lewis Hamilton

Il pilota inglese infatti nel corso della scorsa stagione ha cercato attivamente di cambiare qualcosa all’interno del circus. Cercando di attivare le coscienze dei suoi colleghi è riuscito a coinvolgere diversi piloti, ottenendo anche risultati importanti, come lo slogan #WeRaceAsOne. I piloti si presentavano inoltre alla cerimonia dell’inno nazionale del circuito ospitante indossando maglie che portavano la scritta “Black Lives Matter”.

Tuttavia quando Hamilton ha deciso di salire sul podio con una maglietta che chiedeva giustizia per Breonna Taylor la FIA ha pensato di sanzionarlo. Seppure la condanna non sia mai arrivata, ed il campione della Mercedes non abbia mai ricevuto penalità a seguito di quel gesto, resta comunque l’ indignazione per aver anche soltanto pensato di limitare rimostranze del genere.

La motivazione dell’indagine fu che Hamilton avesse portato temi politici sul podio della competizione. Questa è esattamente la stessa motivazione adottata dal Cio per giustificare il recente divieto. Bisogna tuttavia rendersi conto che combattere per i propri diritti non è un gesto politico, bensì sociale.




Il fatto che il movimento Black Lives Matter fosse apertamente a favore del candidato democratico Joe Biden nelle recenti elezioni presidenziali americane non significa che l’intero movimento sia politicizzato. Lo stesso discorso vale per qualsiasi altro movimento rivendichi diritti. Si sta parlando, sempre, di temi sociali e di uguaglianza, è bene ricordarlo.

Limitare persone che stanno chiedendo diritti, per loro e per le loro comunità, è un gesto che andrebbe condannato sotto ogni punto di vista. Le persone vogliono progresso, i giovani scendono in piazza per ottenerlo, e qualunque personaggio di spicco voglia lanciare messaggi favorevoli deve potersi sentire libero di farlo, per evitare di creare altra ignoranza. Il progresso non si ferma, e il futuro sta arrivando, ma qual’è il prezzo che siamo disposti a pagare per fare la nostra parte?

Marzioni Thomas

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